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di Enrico Giustacchini
Continua il viaggio di “Stile” nell’Alta moda, per indagare il complesso di relazioni che intercorrono tra questo ambito creativo e le arti figurative. Enrico Giustacchini ha incontrato Roberto Capucci. Capucci, i suoi abiti sono sculture. Sculture barocche. Be’, sa, io sono romano. Vivo e lavoro a Roma… …e i romani sono un po’ tutti figli di Bernini. Forse è così. C’è quest’atmosfera di splendore barocco che ci circonda, ci avvolge. Certo, mi si stringe il cuore quando vedo tante brutture, che hanno deturpato la mia città. Ma dall’alto Roma è – o almeno sembra – ancora bellissima.
Roma dunque come musa della sua creatività? Direi piuttosto una delle mie tante fonti d’ispirazione. Amo Roma, ma amo pure allontanarmene. Amo follemente viaggiare, conoscere nuove realtà. Amo ogni cosa bella, per cui ogni sensazione mi viene restituita filtrata dalla bellezza. Sono malato di bellezza. “Malato di bellezza”. Una definizione suggestiva. Sì, ogni espressione di bellezza mi affascina. Mi ispira la natura, che ci dà forme, misteri, profumi. Anche un incontro con persone intelligenti mi stimola. E poi la musica: la musica mi emoziona. Mi capita non di rado, durante un concerto cui sto assistendo, di avere idee, illuminazioni improvvise. Allora faccio una piega sul cartoncino del programma, a mo’ di promemoria, per non dimenticarmi, appunto, di aver avuto questa nuova intuizione. Poi, tornato a casa, prendo il taccuino e comincio a disegnare.
E l’arte? Barocco a parte, c’è qualche autore, o periodo, o movimento, cui si sente più vicino? Tutta l’arte mi piace, purché sia sincera. Posso entrare alla Pinacoteca di Siena, soffermarmi per l’intera giornata ad ammirare i Primitivi, fare il “pieno” di bellezza, poi tornare al lavoro e creare qualcosa che, concettualmente e strutturalmente, è magari agli antipodi di quel che ho visto. Ma non importa: l’arte prima o poi arriva, non c’è nulla da fare. Purché – lo ripeto – sia sincera, rappresenti una verità dell’artista, non sia un bluff: arriva, come la meraviglia di un’ombra su un muro, di un temporale inatteso. Quale arte prediligo? Impossibile stilare classifiche: sarebbe come chiedere a una madre di cinque figli quale di loro preferisce… A tu per tu con Michelangelo Durante i lavori alla Cappella Sistina, ho passato ore e ore sulle impalcature, a fianco dei restauratori, a tu per tu con quegli affreschi vertiginosi. Tornavo a casa, e mi sembrava di volare. Amo questa sensazione di leggerezza. Posso dire, con gioia, di essere un uomo sereno, un uomo che ama la vita, nonostante le brutture, nonostante l’insopportabilità di tanti comportamenti: penso alla violenza, alla guerra.
Lei vanta una solida formazione in ambito artistico. A partire dagli studi in Accademia. In Accademia ho avuto come maestri Mazzacurati, Avenali e Libero de Libero. Ricordo ancora con orgoglio i miei dieci in scultura. Ma la sensibilità per l’arte arriva da più lontano, dalla mia famiglia, dove ho maturato prestissimo una solida capacità critica e, soprattutto, autocritica verso il dato estetico. I risultati sono evidenti a tutti. Lei può essere considerato il sarto-artista per eccellenza. Io preferisco definire la mia, più modestamente, arte-artigianato. Semmai, posso dire che sono una persona fortunata, cui la vita ha concesso di fare ciò che desiderava. Io opero sempre nella più assoluta libertà, ossia nell’unica condizione che consente di creare. E’ in questa condizione di totale mancanza di vincoli che nascono, ad esempio, i miei abiti-scultura, esposti nei musei di ogni parte del mondo…
Già, queste opere hanno raggiunto davvero i “templi” dell’arte internazionale. dal Victoria and Albert Museum di Londra al Kunsthistorisches Museum di Vienna, dal Guggenheim di New York alla Fundación Santander di Madrid. E poi Parigi, Mosca, Amsterdam, Pechino, Johannesburg, Tokyo, Berlino, Stoccolma, Boston (dove a Capucci è stato assegnato, primo tra gli stilisti italiani, l’Oscar della Moda, ndR), Monaco, San Pietroburgo… Una carriera straordinaria, insomma, che solo pochissime personalità del nostro tempo possono vantare. Molti di questi musei, inoltre, hanno acquisito i suoi abiti-scultura per le loro collezioni permanenti: dai già citati Victoria and Albert e Kunsthistorisches di Vienna, a Palazzo Pitti e al Fortuny di Venezia. Difficile negare alle sue creazioni il titolo di capolavori artistici. Effettivamente, ci sono pezzi nati a prescindere da ogni aspetto commerciale. Pezzi per i quali non era previsto che dovessero, poi, venire indossati. Sculture, insomma, create senza badare al tempo né al denaro, utilizzando tessuti rari e preziosi, febbrilmente cercati, magari, per tutta l’Europa prima di riuscire a scovarli. Prendiamo “Oceano”, ad esempio. Quest’opera, presentata all’Expo di Lisbona nel 1998, è stata realizzata mediante la sovrapposizione di ventisette gradazioni di blu, ad interpretare il tema della manifestazione, “L’Oceano, il futuro dei Mari”. Per completarla sono stati necessari cinque mesi di lavoro. Milleduecento i pezzetti di plissé tagliati e applicati a mano uno per uno. La fatica fu peraltro ben ripagata: la scultura riscosse un enorme successo, tanto che i portoghesi volevano trattenerla. Il Governo italiano rifiutò, dichiarò che faceva parte del patrimonio artistico nazionale, che non si poteva alienarla, che l’avrebbero esposta in patria, eccetera. Alcuni mesi dopo, però, le autorità di casa nostra me la restituirono, con la spiegazione che era giusto che fosse custodita da me. Io ne fui ben soddisfatto, naturalmente, ed ora l’opera sta girando tutte le mostre che mi vengono dedicate.
L’abbiamo trovata, tra l’altro, anche a “Lo stupore della forma”, la mostra promossa dal Fai in quella Villa Panza di Biumo che ospita anche, in permanenza, una grande collezione di arte contemporanea americana. L’idea di questa rassegna è stata di Giulia Maria Crespi, che me la propose. Io fui ben lieto di accettare, anche perché il luogo è davvero affascinante, sospeso tra il passato delle sue architetture ed il presente, o il futuro, della collezione d’avanguardia di Giuseppe Panza di Biumo. L’allestimento non poteva prescindere da questo: e così abbiamo esposto i miei abiti-scultura considerando gli accostamenti, formali e soprattutto cromatici, con le opere esistenti. In perfetta sintonia con i capolavori del ’900 Ad esempio, un vestito dove prevale l’oro è stato collocato in una stanza che conteneva un quadro giallo ed uno nero; uno color acciaio insieme a quadri dipinti con tonalità grigio-perla. Nelle Scuderie e nel Salone Impero, invece, gli abiti sono stati posizionati accanto alle gigantografie di interpretazioni di mie creazioni da parte dei grandi fotografi di “Vogue Italia”, da Peter Lindbergh a Javier Valhonrat, a Gianpaolo Barbieri ed altri.
La mostra varesina è la seconda in cui le sue sculture vengono messe in relazione diretta con capolavori di maestri dell’arte del Novecento. La prima fu l’ormai mitica “Regards sur la femme” , nel 1993, alla Monnaye di Parigi, con i suoi abiti in intimo colloquio con opere di Picasso, Balthus, Moore, Arp, Masson. In quell’occasione i francesi mi invitarono con insistenza, ma anche, mi sembrò di capire, un po’… a malincuore. Forse, per loro rappresentava una sorta di smacco doversi rivolgere ad uno stilista italiano: ma evidentemente, in casa non avevano trovato una soluzione adeguata alle loro esigenze… A Villa Panza di Biumo sono esposti pure i dodici celebri abiti-scultura ispirati al mondo dei minerali, da lei realizzati per la Biennale veneziana del 1995, l’edizione del centenario.
Il direttore di quella edizione della Biennale, Jean Clair, aveva già richiesto la presenza delle mie opere al Musée Picasso di Parigi, di cui era responsabile. Io allora avevo declinato l’invito, perché gli spazi della struttura non mi erano sembrati adatti all’operazione. Clair mi rinnovò la richiesta, appunto, in occasione della Biennale, cui furono ammessi a partecipare soltanto venti artisti italiani (e non mancarono le polemiche, tra gli scultori esclusi). Egli non mi pose alcuna condizione, né mi diede indicazioni particolari. Mi regalò però un consiglio: “Porti delle creazioni che siano la massima espressione della sua arte. Ma nel realizzarle non si dimentichi mai il lavoro che fa”.
Già, il lavoro. La valenza artistica assoluta delle sue opere si accompagna sempre alla contingenza dell’agire creativo. Un binomio indissolubile, che nobilita entrambe le facce della medaglia. Il vestito – con le sue forme, i suoi colori, soprattutto i suoi volumi – è un habitat. Questo è fuori discussione. Può sembrare una considerazione banale, ma è comunque un dato imprescindibile. Ce lo conferma la storia del costume: aristocratico o popolare che sia. Se poi pensiamo a taluni sviluppi in senso monumentale – nel Cinquecento, nel Seicento, nel Settecento -, alle esplosioni di gorgiere e crinoline… Oggi, certo, tendiamo a vestirci un po’ come capita: ma io non rinuncio a proporre ciò che sento, non rinuncio alle mie idee, alle mie concezioni. Amo i volumi, le costruzioni, una luce che entra, un colore che esce. Ho fatto diventare la mia filosofia di vita una massima di Schiller: “Se quello che fai non piacerà alle folle cerca di deliziare i pochi. E’ un errore voler piacere a tutti”.
La signora Wu Yi e l’imperatore nudo Le racconto un episodio che mi è capitato, ancora in quel “magico” 1995. Ero a Pechino per una manifestazione culturale, ospite del governo cinese. Incontrando l’allora ministro al Commercio estero, la signora Wu Yi, le dissi: “E’ un onore per me essere qui, ma certo avete invitato la persona più difficile”. Usai proprio questo termine, “difficile”, pensando alle mie caratteristiche stilistiche, e raffrontandole inevitabilmente con la semplicità del vestire di quel Paese, alle elementari divise maoiste. Wu Yi mi diede però una risposta sorprendente: “L’imperatore cinese nudo era un cinese; l’imperatore vestito era un imperatore. Lei, signor Capucci” aggiunse “ha creato l’abitazione per le donne: il vestito è la casa di una donna, ne è l’anima. Nei suoi vestiti c’è il rispetto per le donne”. Ed è così. Io nutro un enorme rispetto per la donna. La donna è per me una dea, traboccante di fascino segreto. Così come detesto la volgarità e la sfrontatezza del “piatto pronto”, così amo la sensibilità di una scoperta graduale del mistero femminile, del disvelamento, poco alla volta, di ogni manifestazione, intima od esteriore.
“Fin dal 1950 Roberto Capucci ha continuamente stupito il mondo dell’Alta moda con la sua architettura per il corpo. Gli abiti di questo notevole disegnatore europeo sono infatti come sculture. Uno storico potrebbe descriverli come ‘soffici corazze’ del Medioevo. Un botanico potrebbe vederli come corolle giganti dalle quali si irradiano petali di seta in toni orientali. Un matematico commenterebbe indubbiamente sulle drammatiche forme geometriche impiegate sul disegno. Ognuno che vede gli abiti di Capucci è d’accordo sul fatto che siano habitat fantastici”. Sono parole di Germano Celant. Le condivide? Oddio, che taluni dei miei abiti possano essere considerati “corazze”, sia pure “soffici”, è senz’altro vero. Non dimentichiamo che nel 1991, a Vienna, il Kunsthistorisches ha allestito una mostra, “Roberto Capucci, roben wie Rustungen”, proprio mettendo a confronto ottanta mie creazioni, riassuntive di quarant’anni di lavoro – e già esposte l’anno prima a Firenze, Palazzo Strozzi – con altrettante armature da cerimonia del XV secolo e quindici uniformi di gala del XVIII secolo della famiglia imperiale degli Asburgo. C’è invece chi nei miei vestiti vede fiori, o altro. Che dire? Hanno ragione tutti. Io, lo ripeto, mi ispiro a tutto, e tutto mi ispira: purché sia bello. Ho bisogno di assorbire il bello, il bello mi eccita. Nel cialtrume mi sembra di morire.
Un archivio di 33mila disegni La forza creativa che si sprigiona dai suoi abiti si accompagna sempre ad un esemplare rigore della costruzione. E’ proprio questo mix di estro e sapienza compositiva che le consente, a mio giudizio, di raggiungere esiti altissimi dal punto di vista artistico. Che importanza ha per lei il disegno? Le rispondo così: ad oggi, i disegni catalogati nel mio archivio sono esattamente 33.870. Disegnare per me è una droga: passo ore ed ore con la matita in mano, perdendo la cognizione del tempo. Disegno in continuazione. Molti progetti di abiti, è naturale, sono rimasti tali, tracciati sulle pagine del taccuino e mai realizzati. Ma disegnare è fondamentale per me, fa parte della mia quotidianità.
Concluderei con un’osservazione relativa al suo atelier. Come la bottega di un artista rinascimentale, l’atelier diventa, per lei, un elemento imprescindibile, un luogo del cuore e dell’anima. Gianluca Bauzano parla di “luogo mitico” e, citando Macchi, di fucina dove lei “pur usando ago e filo, tratta la seta come metallo, la modula come fosse stagno, la fonde come bronzo”, scolpendo con il tessuto, con i colori e con le pieghe luminose. Sì, il mio atelier è un luogo straordinario, un’isola dove si lavora duramente ma in armonia, senza tensioni, con il sorriso sulle labbra. E’ bello operare così: ma questo mondo sta finendo, le lavoranti sono anziane ed è sempre più difficile trovare giovani disposte a dedicarsi ad una professione che dà tante soddisfazioni ma che richiede anche grande impegno e sacrificio. Così come è sempre più difficile trovare i materiali adeguati, i tessuti davvero all’altezza. Sì, gli anni passano, ed è tutta un’epoca che tramonta… Quanta malinconia.