Perché il palazzo di Tiziano diventò la casa dei suicidi?

Una sorta di maledizione - malapasqua, malocchio - sembra incombere, avvolgendone e impregnandone gli spazi, sulla “domo posita in Biri Magno” là dove Venezia scivolava verso la Laguna guardando il profilo di Murano: ed era stata residenza sontuosa e officina laboriosa di Tiziano sino alla notte del 27 agosto 1576, quando la peste aveva portato via il Grande Vecchio confidandone il corpo alle frettolose esequie dirette al sepolcro designato nel tempio francescano dei Frari

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 Giovanni Contarini, Caduta di Saturno

Giovanni Contarini, Caduta di Saturno

di Lionello Puppi
 
Una sorta di maledizione – malapasqua, malocchio – sembra incombere, avvolgendone e impregnandone gli spazi, sulla “domo posita in Biri Magno” là dove Venezia scivolava verso la Laguna guardando il profilo di Murano: ed era stata residenza sontuosa e officina laboriosa di Tiziano sino alla notte del 27 agosto 1576, quando la peste aveva portato via il Grande Vecchio confidandone il corpo alle frettolose esequie dirette al sepolcro designato nel tempio francescano dei Frari.
Poi, depredata e spogliata di mobili, arredi, preziosi, libri, incartamenti, tappezzerie e “quadri innumerabili di non picciol valore”, tra 27 ottobre 1581 e 4 gennaio 1582, il figlio del Maestro, Pomponio, la cedeva a Gregorio Barbarigo che vi accoglieva subito dopo Francesco Dal Ponte, smanioso di mettersi in proprio, fuggendo la bottega famigliare bassanese e la tutela arcigna e severa del padre Jacopo, ma già minato dalla tisi e da turbamenti di mente che lo facevano sussultare ad ogni scricchiolio e correre “senza posa (…) da una stanza in l’altra” nel terrore che gli sbirri e i signori della corte di Giustizia fossero sopraggiunti a prenderlo e punirlo per colpe e delitti che solo lui sapeva.
Giovanni Contarini, Autoritratto
Giovanni Contarini, Autoritratto

Sinché, sul finir del dicembre del 1591, quell’insensato scappar dai fantasmi s’era iniettato, incuneato, nel varco aperto al vuoto di un balcone, e s’era buttato giù, lo sventurato, “furiosamente”, fracassandosi una tempia sul selciato e consegnandosi ai tormenti lancinanti di un’agonia cui la morte, pietosa, porrà fine il 3 luglio 1592.
Ma non resteranno vuoti a lungo quegli spazi maledetti, solo che prestiam fede al notorio Carlo Ridolfi il quale, ne Le Maraviglie dell’Arte (1648), ci assicura che Leonardo Corona – un pittore di cui si presumeva di saper parecchio, e ci avvediamo adesso di saper poco – era andato a stare “in Birri nella casa ove habitava Titiano”: e non ci inganna ché, documenti alla mano, ve lo troviamo davvero (poco prima, in altre stanze, con una “donna Lucia, vedova, e il figlio Cipriano” vi si era insediato uno dei più geniali scultori veneti a cavaliere di Cinque e Seicento, Camillo Mariani, ma già era in procinto di partir per Roma a dar prova del suo talento alla Minerva, a San Giovanni in Laterano, a Santa Maria Maggiore) insieme con la consorte Giustina, ben quattro figlioli, una massara, un paio di garzoni, e però giusto per apprendere che “adì 5 otobrio 1596 (…) misier Lunardo Corona pitor di anni 44” vi decedeva dopo esser stato afflitto per tre settimane “da febre e petegie”.
E impressiona, sconcerta, constatare che contava appena quarantadue anni pur Francesco Dal Ponte allorché si buttava giù, “per frenesia”, da un balcone: ch’era forse – chissà – lo stesso cui affacciava la camera dove, il 12 dicembre 1602, “Zuane Contarini pittor fo del magnifico misier Piero”, di quarant’anni, attendeva l’arrivo del notaio Federico Figolin, confortato dalla vedova di Leonardo Corona, Giustina, e da un paio di vicini di casa frettolosamente fatti accorrere per testimoniar sotto giuramento la consegna delle sue ultime volontà.
Quali traversie ve lo avevano condotto? “Del corpo malato et indisposto”, giace a letto e, se reciterà con fermezza la formula di rito (“mi attrovo sano per gratia di Dio della mente, senso et intelletto”), la febbre, allorché predisporrà il dono di un suo quadro (“et non è finito”) al “carissimo et dolcissimo compare” Ottavio Fabri, raffinato mercante di perle e preziosi, che lo reputava “non inferiore agli altri passati e a questi pittori presenti perché egli la fa alla tizianesca”, lo indurrà ad evocare un improbabile “Apolo (…) il qual ha la testa in man del gigante”.
Ma, veramente – come ci ricorda Linda Borean, che ha commentato da par suo il testamento or ora reperito e trascritto da Paola Benussi -, non aveva dipinto, una volta, il Contarini (e il quadro sta oggi nella Pinacoteca Querini Stampalia di Venezia), Davide come Apollo “con la lira in mano e con la gamba sinistra poggiante sulla testa di Golia”? Non aveva eletto, con il sodale poeta Girolamo Magagnati – che corrispondeva con Galileo -, “Apollo nostro comun Signore”? Ut pictura poesis: nel segno di Tiziano.


E’ sempre il Ridolfi a farci edotti di “incommodi e prigionie” che il pittore avrebbe patito, sul finir della vita, per un’innominata “giovinetta” di cui s’era perdutamente innamorato: una volta di più, e lo vedremo tra poco, lo storiografo non ci inganna, laddove aveva errato nell’indicar la data di nascita del personaggio all’anno 1549, e fu, viceversa, il 1562, siccome, inoppugnabilmente, ci fan sicuri i necrologi dei Provveditori alla Sanità, registrandone la morte addì 30 dicembre 1602.
Rampollo (del padre Pietro sappiam solo che associava al cognome il predicato “della Valonia” mai sinora convincentemente spiegato, e ch’era dotato di “honeste fortune”) di un ramo della famiglia Contarini che la serrata del Maggior Consiglio aveva escluso dal patriziato, della condizione borghese e meccanica, cui era costretto, era insofferente. S’applicò, per riscattarsene e guadagnarsi un ruolo liberale, allo studio delle lettere e seppe meritare, a diciott’anni, l’iscrizione ad una lista di “nodari di rispetto”, ma allorché, nel 1587, un posto si rende disponibile aprendogli la possibilità di praticare una professione onorata, ricusa, dichiarando – siccome risulta da un incartamento della Cancelleria inferiore a lui intestato (e ritrovato da Annalisa Bristot) – di “attendere a divers’altra professione della nodaria per non sentirsi atto a quella”: ed aveva, infatti, scelto la pittura frequentando, tra le botteghe cui poteva affidarsi, quella (di Leonardo Corona?) presso la quale la lezione di Tiziano permanesse viva, autentica, feconda.
Rivela un sorprendente, inatteso talento; si fa conoscere, né stenta a trovar clienti di riguardo che gli sollecitano ritratti, poesie mitologiche, storie bibliche: ma non sopporta l’obbligo, per continuar a fare il pittore, d’ascriversi alla corporazione – meccanica – di mestiere, nel momento in cui non poteva non essere informato del reclutamento d’artisti per la corte imperiale che il saturnino Rodolfo II aveva promosso. Disponeva dei mezzi e delle relazioni – nonché della determinazione e del coraggio – per tentar l’avventura, e ben gliene incorre. Nel 1580 è a Praga, e si è già fatto apprezzare abbastanza da vedersi riconoscere, insieme all’Arcimboldo, l’agognato titolo nobiliare: che uno Spranger o un Heintz, con le cui raffinate ed estenuate calligrafie manieristiche confronta il suo tizianismo, dovran sospirare anni ancora.
Non ne seguiremo qui le peripezie, né tenteremo d’abbozzare il difficile catalogo della sua attività ch’è, in effetti, in buona misura, ancor da redigere.
Se qualche sua breve rimpatriata a Venezia non è da escludere, è certo che, nel 1591, si trova presso il cugino dell’imperatore, l’arciduca Ferdinando II, nel castello di Ambras e a Innsbruck, la cui Camera gli liquida ben 240 gulden il 26 settembre di quell’anno e poco dopo, il 15 aprile 1592, altri trenta: ma non siamo informati a qual titolo.



Un anno e mezzo appresso, il 13 novembre 1593, Ferdinando II indirizza a Ernesto – fratello di Rodolfo II, residente a Praga ma in procinto di partir per Bruxelles ove l’attendeva il compito arduo di governatore delle Fiandre – una lettera che gli comunicava il desiderio dell’Hofkünstler Giovanni Contarini d’accompagnarlo nella spedizione: ignoriamo, però, l’esito della supplica che, dunque e per adesso, attesta lo spirito avventuroso del personaggio certamente, ma fors’anche la sua consapevolezza di un disagio.
Il vento non tirava più a suo favore, in Tirolo; arie ostili doveva aver avvertito. Aveva abusato dell’ospitalità della corte; era persin caduto in disgrazia “per haversi goduta una dama” dell’entourage arciducale, siccome insinua il Ridolfi, che allude ad un suo riparo nel castello del barone Sigmund Freiherrn von Welsberger, governatore di Rovereto: dove potrebbe aver meditato, e alfine deliberato, il definitivo ritorno a Venezia, “non volendo prudentemente Giovanni rimettersi alla discretione della fortuna in paese straniero, ove l’invidia con maggior vigore esercita i suoi maligni effetti”.
A ben pensarci, aveva pur conseguito il titolo di nobiltà che un incidente aveva negato al suo ramo di casa Contarina, e il ruolo conquistato di artista di corti imperiali e principesche aveva garantito condizione di liberalità alla sua professione di pittore. Non tornava tra le Lagune, per dirla tutta, “ricco di onore e di gran somma di contanti”? Che gli consentivano di prender casa a San Moisè, di acquistar terre nelle campagne di Monselice e di presentarsi “vestendo l’habito corto, con spada al fianco e cappello ripieno di piume e collana d’oro al collo, donatagli dall’imperatore” con cui si riprende (ma i lineamenti stirati del volto, il naso affilato, le occhiaie profonde, denunciano la febbre che gli brucia dentro) nell’Autoritratto che, nel 1682, Cosimo III smaniò per assicurarlo alle Gallerie Palatine di Firenze?
Si ingannava: variabile discrezione di fortuna e malignità di invidia vigevano capricciose e virulente anche in patria. Se, beffardo, il capitano di Giustizia, Marco Dolce, lo esorta a liberarsi dell’ammanto stravagante per vestir la “toga veneta”, con i pochi amici congeniali che s’era fatto – il Magagnati; il raffinato collezionista Ottavio Fabri – s’apparta a ragionar di Apollo.
Vi si aggregava pure il misterioso Leonardo Corona, che il Boschini, pochi decenni appresso, non esitava a proclamare “vero alchimista de Pitura”, “lucido diamante”, “colonelo real del colorir, mistro de campo, pien de gran saver”; ed era andato a stare là dove Tiziano aveva trascorso i decenni più gloriosi della sua prodigiosa e sovrana avventura di artista? Quel “Corona de Muran, d’oro e de zogie tuta resplendente” che, di dieci anni più vecchio di lui, l’aveva forse iniziato al “più eccellente di quanti hanno dipinto”, a Tiziano, sin da prima dell’esilio, che s’era imposto, nelle corti di Praga e Innsbruck?
Che il Contarini praticasse liberalmente l’“Arte dela pittura facendo ogni sorta di figure et altro per vender e cavar utilli”, la Corporazione dei mestieri non poteva permettere: e, dalla sua parte, aveva la legge; promuove una causa che Giovanni perde e, nel 1597, gli è forza ascriversi. Se ciò gli spalanca le porte di Palazzo Ducale, di spazi ecclesiali, del cantiere musivo di San Marco, l’umiliazione era stata bruciante.
Cerca consolazione nell’altra metà del cielo ma, come a Innsbruck, mira troppo in alto? Gliene verranno – asserisce il Ridolfi; e l’abbiam anticipato – “incommodi e prigionie”: di fatto (ma non abbiamo ancora reperito l’incartamento del processo, né le sue motivazioni, né il dispositivo della sentenza), nel dicembre del 1600 lo sorprendiamo costretto – con l’amico del cuore Girolamo Magagnati – nell’umidità gelida e asfissiante delle prigioni dei Capi del Consiglio dei Dieci, e in tale stato di prostrazione che se ne dispone il trasferimento nelle “novissime” che, al di là del ponte dei Sospiri, eran per essere ultimate.



L’atto di clemenza che, poco dopo, interverrà, libererà un uomo che ha perduto tutto – la casa e lo studio a San Moisè; i fondi in Terraferma; il danaro – tranne qualche quadro incompiuto, “relievi de zessi, cioè figure, gambe, teste, dessegni” che Giustina, vedova di Leonardo Corona, era riuscita a metter in salvo e riparare nella casa stregata al Biri Grande: dove lo accoglierà (ma – ancora – a qual titolo?) stremato dall’“infirmità”, consolandone gli ultimi giorni con “assidua servitù”.

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