Circa un millennio fa, un piccolo gruppo di polinesiani intraprese una lunga traversata del Pacifico per stabilirsi su una remota isola, che chiamarono Rapa Nui. Qui, eressero centinaia di moai, grandi statue di pietra diventate simboli di una civiltà scomparsa. Le teste megalitiche di Rapa Nui sono enormi statue monolitiche scolpite dalla pietra vulcanica dell’isola. Queste sculture iconiche sono state create tra il 1400 e il 1650 d.C. dai primi abitanti polinesiani dell’isola. Il numero e la qualità delle sculture lasciarono aperta l’ipotesi che quando gli europei giunsero nel XVIII secolo la civiltà che aveva prodotto quelle teste si fosse praticamente estinta, considerato il fatto che gli abitanti rimasti sull’isola erano numericamente limitati. Si pensò a una sorta di eco-disastro.
Si pensò che, con il tempo, il numero di abitanti fosse cresciuto eccessivamente; e che, così, fossero stati abbattuti tutti gli alberi, eliminando gli uccelli marini ed esaurendo le risorse del suolo.. Secondo l’ipotesi che mostra le concordanze maggioritarie avvenne il crollo della loro popolazione e civiltà, riducendo la popolazione a poche migliaia quando gli europei scoprirono l’isola nel 1722 e la chiamarono Isola di Pasqua. Almeno, questa è la versione tradizionale, raccontata in opere accademiche e popolari come “Collapse” di Jared Diamond del 2005. Quindi: alcune ipotesi, che volevano spiegare la complessa realizzazione delle grandi teste scolpite che avrebbero richiesto un enorme forza lavoro, hanno ipotizzato che inizialmente gli abitanti dell’isola fossero molto numerosi e che durante questa fase di elevata forza demografica avessero compiuto i lavoro capolavori; ma con il tempo, proprio a causa di un eccessivo intervento di antropizzazione dell’isola, la popolazione fosse collassata per consumazione delle risorse.
Un nuovo studio contesta questa narrativa di ecocidio, sostenendo che la popolazione di Rapa Nui non abbia mai raggiunto livelli insostenibili. Invece, i coloni trovarono modi per gestire le limitate risorse dell’isola, mantenendo per secoli una popolazione piccola e stabile. La prova risiede in un sofisticato inventario dei “giardini rocciosi”, dove gli isolani coltivavano patate dolci nutrienti, base della loro dieta. I giardini coprivano un’area sufficiente per sostenere solo poche migliaia di persone. Lo studio è stato pubblicato recentemente su Science Advances.
“Ciò dimostra che la popolazione non avrebbe mai potuto essere così numerosa come alcune delle stime precedenti”, ha affermato Dylan Davis, autore principale e ricercatore post-dottorato in archeologia presso la Columbia Climate School. “La lezione è l’opposto della teoria del collasso. Le persone sono state in grado di essere molto resilienti di fronte a risorse limitate modificando l’ambiente in un modo che ha aiutato”.
L’Isola di Pasqua è probabilmente il luogo abitato più remoto della Terra e uno degli ultimi ad essere popolati, se non l’ultimo. La terraferma più vicina è il Cile centrale, a quasi 2.200 miglia a est. A circa 3.200 miglia a ovest ci sono le Isole Cook tropicali, da cui si pensa che i coloni abbiano navigato a partire dal 1200 d.C.
L’isola di 63 miglia quadrate è interamente di roccia vulcanica, ma, a differenza delle isole tropicali come Hawaii e Tahiti, le eruzioni cessarono centinaia di migliaia di anni fa, e i nutrienti minerali della lava sono stati erosi dal suolo. Situata nella zona subtropicale, l’isola è anche più secca rispetto alle sue controparti tropicali. Inoltre, le acque oceaniche circostanti scendono ripidamente, costringendo gli isolani a lavorare di più per catturare creature marine rispetto ad altre isole polinesiane circondate da lagune e barriere coralline.
Per adattarsi, i coloni adottarono una tecnica chiamata giardinaggio roccioso o pacciamatura litica. Spargevano rocce su superfici basse, parzialmente protette dalla nebbia salina e dal vento. Tra le rocce piantavano patate dolci. La ricerca ha dimostrato che le rocce, di varie dimensioni, interrompono i venti secchi e creano flussi d’aria turbolenti, riducendo le temperature diurne e aumentando quelle notturne. Le rocce spezzate a mano rilasciano nutrienti minerali nel terreno man mano che si disgregano. Anche oggi, alcuni isolani utilizzano ancora questi orti, anche se con produttività marginale. Questa tecnica è stata utilizzata anche dagli indigeni della Nuova Zelanda, delle Isole Canarie e del sud-ovest degli Stati Uniti.
“Alcuni scienziati hanno sostenuto che la popolazione dell’isola doveva essere molto più numerosa dei circa 3.000 residenti osservati per la prima volta dagli europei, in parte a causa degli enormi moai. – dicono gli studiosi – Negli ultimi anni, i ricercatori hanno tentato di stimare queste popolazioni studiando l’estensione e la capacità produttiva dei giardini rocciosi. I primi europei stimavano che questi giardini coprissero il 10% dell’isola. Uno studio del 2013 basato su immagini satellitari visive e nel vicino infrarosso ha mostrato un margine di errore tra il 2,5% e il 12,5%, perché questi spettri distinguono solo aree di roccia e vegetazione. Uno studio del 2017 ha identificato circa 7.700 acri, ovvero il 19% dell’isola, adatti alla coltivazione delle patate dolci. Gli studi hanno stimato che le popolazioni passate potrebbero essere aumentate fino a 17.500, o addirittura 25.000, sebbene potrebbero essere state molto più basse”.
Nel nuovo studio, il gruppo di ricerca ha condotto indagini sul campo sui giardini rocciosi per cinque anni. Utilizzando questi dati, hanno addestrato modelli di apprendimento automatico per rilevare i giardini attraverso immagini satellitari sintonizzate sugli spettri infrarossi a onde corte, che evidenziano non solo le rocce, ma anche aree con maggiore umidità del suolo e azoto, caratteristiche chiave dei giardini.
I ricercatori hanno concluso che i giardini rocciosi occupano solo circa 188 acri, meno dello 0,5% dell’isola. Dicono che potrebbero averne persi alcuni piccoli, ma non abbastanza da fare una grande differenza. Stimano che, se l’intera dieta fosse basata sulle patate dolci, questi orti avrebbero potuto sostenere circa 2.000 persone. Tuttavia, basandosi su isotopi trovati in ossa e denti e altre prove, le persone in passato probabilmente ottenevano dal 35% al 45% della loro dieta da fonti marine e una piccola quantità da altre colture come banane, taro e canna da zucchero. Considerando queste fonti, la capacità di carico della popolazione sarebbe aumentata a circa 3.000 persone, il numero osservato al momento del contatto europeo.
“Ci sono affioramenti rocciosi naturali ovunque che in passato erano stati erroneamente identificati come giardini rocciosi. Le immagini a onde corte danno un quadro diverso,” ha detto Davis.
Carl Lipo, archeologo della Binghamton University e coautore dello studio, ha affermato che l’idea del boom e del crollo della popolazione “sta ancora diffondendosi nella mente del pubblico” e in campi come l’ecologia, ma gli archeologi si stanno allontanando da essa. L’accumulo di prove basate sulla datazione al radiocarbonio di manufatti e resti umani non supporta l’idea di popolazioni enormi. “Lo stile di vita delle persone doveva essere incredibilmente laborioso,” ha detto. “Pensa di sederti a spaccare le rocce tutto il giorno.”
Oggi, la popolazione dell’isola conta quasi 8.000 abitanti, oltre a circa 100.000 turisti all’anno. La maggior parte del cibo viene ora importata, ma alcuni residenti coltivano ancora patate dolci nei vecchi orti, una pratica aumentata durante i lockdown del Covid 2020-2021, quando le importazioni erano limitate. Alcuni hanno adottato tecniche agricole moderne, arando i terreni e applicando fertilizzanti artificiali, ma Lipo avverte che questo non sarà sostenibile, poiché impoverirà ulteriormente il suolo.
Seth Quintus, un antropologo dell’Università delle Hawaii, vede l’isola come “un buon caso di studio sull’adattamento del comportamento umano a fronte di un ambiente dinamico”. Il nuovo studio e altri simili “forniscono l’opportunità di documentare meglio la natura e la portata delle strategie di adattamento”. “Sopravvivere nelle zone subtropicali più aride della più isolata e geologicamente antica Rapa Nui è stata una vera sfida.”
Il team di ricerca include anche Robert DiNapoli della Binghamton University, Gina Pakarati, ricercatrice indipendente su Rapa Nui, e Terry Hunt dell’Università dell’Arizona.
Misure dei Moai
Le dimensioni dei moai variano notevolmente, ma mediamente queste statue misurano circa 4 metri di altezza. Tuttavia, esistono moai molto più grandi e molto più piccoli:
- Il moai più grande mai completato, chiamato “Paro”, misura circa 10 metri di altezza e pesa circa 82 tonnellate.
- Un moai incompleto, se fosse stato terminato, sarebbe stato lungo circa 21 metri e avrebbe pesato circa 270 tonnellate.
Ipotesi sulle tecniche di trasporto e di realizzazione
Esistono diverse teorie su come gli antichi abitanti di Rapa Nui abbiano realizzato e trasportato i moai:
Tecniche di realizzazione
- Ipotesi Scultura nella Cava: Seconda queste ipotesi I moai venivano scolpiti direttamente nella cava di tufo vulcanico di Rano Raraku. Gli scultori utilizzavano strumenti di pietra per intagliare le statue.
- Finitura e Dettagli: Una volta scolpito il corpo principale, i dettagli venivano aggiunti mentre il moai era ancora nella cava, con la parte posteriore lasciata attaccata al substrato roccioso. Solo dopo veniva completata la parte posteriore, e il moai veniva rimosso dalla cava.
Tecniche di trasporto
- Teoria del trascinamento: Una delle ipotesi più accreditate è che i moai venissero trasportati su slitte di legno e rulli cilindrici. Questo metodo avrebbe richiesto l’abbattimento di molti alberi, contribuendo alla deforestazione dell’isola.
- Teoria del “cammino”: Proposta da alcuni ricercatori come Terry Hunt e Carl Lipo, questa teoria suggerisce che i moai venissero “camminati” in posizione verticale, oscillandoli avanti e indietro utilizzando corde. Questo metodo avrebbe potuto essere più efficiente e meno dannoso per l’ambiente.
- Teoria delle piattaforme di legno: Un’altra ipotesi è che venissero utilizzate piattaforme di legno, simili a slitte, per spostare le statue. Le piattaforme potevano essere trainate da gruppi di persone utilizzando corde e leve. E’ probabilmente l’ipotesi più plausibile. In questo modo avveniva anche il lavoro nelle cave italiane. In questo modo Michelangelo recuperò enormi blocchi di pietra per la proprie sculture.