di Anna Loriana Ronchi
“Stile” intervista Beatrice Buscaroli Fabbri, curatrice della mostra “Generazionale: indagine sulle nuove generazioni”, aperta alla Basilica Palladiana di Vicenza fino al 24 febbraio 2002.
Com’è stato strutturato l’allestimento? Quali sono i principali percorsi nei quali si articola la mostra?
La mostra presenta ventotto giovani, di età compresa fra i 30 e i 45 anni, che utilizzano tecniche molto differenti che vanno dalla pittura alla scultura, dalla fotografia al computer. Alcuni di loro sono stati accostati ad artisti di varie nazionalità. L’allestimento si suddivide in due sezioni. La prima avvicina otto artisti italiani ad otto artisti stranieri per creare un confronto tramite i linguaggi in cui si esprimono personalità diverse, ma che possono avere dei punti in comune. Questa costituisce la parte originaria della mostra ed è frutto, beninteso, di convinzioni assolutamente personali. E’ solo una delle mostre possibili nella molteplicità di scelte di cui, oggi, un curatore può disporre.
Ci può illustrare qualche esempio al riguardo?
Federico Guida e Tom Birkner analizzano linguaggi analoghi ed aspetti legati al mondo giovanile; Giulia Caira e Janieta Eyre lavorano sul versante della autorappresentazione fotografica. C’è poi la ricerca nel campo dell’astrazione, testimoniata da Roberto Floreani e Stephen Ellis: per tanto tempo si è detto che l’arte astratta era morta, ma io e il co-curatore Alberto Fiz non siamo di questa idea, e già in passato avevamo realizzato una mostra a Varese sul tema. Accanto ai linguaggi più estremi, più frequentati nelle tendenze recenti, m’interessa la linea della sopravvivenza e del prosperare della pittura. In ogni caso, gli artisti che si sono incontrati in questo tipo di evento hanno vissuto un’esperienza piacevole. Tale “dialogo a due” è la novità della mostra, e consiste, per un artista, nel trovare un alter ego che propone qualcosa di simile a quanto egli stesso fa.
E quali sono stati i criteri che hanno guidato le scelte per quanto riguarda la seconda sezione, dedicata ai giovani artisti italiani?
Questa seconda sezione è uno spaccato di arte italiana, e rientra nei programmi che, come direttore artistico, seguo da diversi anni. Lo Spazio LAMeC ha infatti inaugurato nel ’99 con una mostra sul Futurismo che è stata visitata da oltre 10mila persone e alla quale ne sono seguite altre, fra cui quella dedicata a Paul Jenkins ed un’indagine del Novecento per regioni. Dietro questo progetto esiste un metodo di lavoro che differenzia la nostra da qualsiasi altra mostra di arte contemporanea. Abbiamo voluto aprire una stagione, dove alle esposizioni si accompagnasse un lavoro critico e metodologico.
Ma che cosa è effettivamente cambiato nel panorama dei giovani artisti a cominciare, diciamo, dalla fine degli anni ’70?
Oggi c’è molta più autonomia verso i modelli, molta più libertà e molta più buona fede. Parecchi giovani lavorano compiendo scelte difficili, perché credono nel linguaggio che hanno abbracciato, anche se esso non è di moda. Hanno più coraggio, ma in Italia spesso non trovano supporti e non vengono appoggiati. Capita che alcuni di loro ritornino in patria dopo qualche anno di “emigrazione” e dopo essere stati conosciuti all’estero; ritengo non sia giusto relegarli soltanto all’ambito delle riviste di tendenza.
Jean Baudrillard afferma che “la maggior parte dell’arte contemporanea tende ad appropriarsi della banalità, del rifiuto, della mediocrità come valore e ideologia… Il passaggio al livello estetico non salva niente, anzi: è una mediocrità elevata al quadrato. Pretende di essere il nulla e lo è davvero”. Inoltre sostiene che “l’arte contemporanea fa leva sull’impossibilità di un fondato giudizio estetico e specula sulla colpevolezza di quelli che non ne capiscono niente o che non hanno capito che non c’è niente da capire”. Cosa pensa di queste considerazioni?
E’ un giudizio molto duro, ma in parte condivisibile, soprattutto là dove le parentele diffuse con Marcel Duchamp non mantengono la tensione interna e sono prive di quella aggressività sottile e latente in cui l’ironia stempera la frontalità dell’evento artistico. Se si pensa che la capacità di stupire appartiene all’inizio dell’ultimo secolo, allora qualsiasi effetto si volesse ricreare è stato ottenuto. Stupisce ora chi sa dipingere, chi sa scolpire, chi sa condurre l’opera d’arte dall’inizio alla fine. Ormai dai tempi dei Dada e di Duchamp non c’è più nulla da irridere e da demistificare. Ci sarebbe invece da ricostruire. Martin Kippenberger, per esempio, è un artista che assieme agli aspetti dell’ironia e alla corrosività della denuncia ha saputo mantenere una leggerezza che rendeva unica la chiarezza del messaggio.
Qual è stato e qual è il destino della pittura, quasi completamente eliminata negli ultimi anni dalle rassegne internazionali?
Per un centinaio di anni si è cercato di dire che la pittura è morta, invece la stessa dimostra una vitalità inaspettata proprio nei contenuti degli artisti delle nuove generazioni. Il decretare la morte della pittura è stato un errore del secolo scorso. I musei stranieri tendono a fare solo installazioni fotografiche, ma gli artisti si servono di linguaggi che rinnovano l’arte figurativa in maniera imprevedibile e mutano l’atteggiamento dei padri delle avanguardie, che aspiravano a cambiare il mondo. Si profila ancora la possibilità straordinaria di trattare nella pittura una figura o un paesaggio, un moto interiore. La funzione dissacrante ed eversiva degli artisti si riversa nella pittura, che si carica di valenze legate alla protesta sociale, all’anti-accademismo della bad-painting o all’assimilazione della tecnologia asservita alla tela.