Pregevole e nobile è l’istinto del cane che vigila il proprio padrone, lo protegge, lo custodisce, ne condivide le gioie e i dolori, senza abbandonarlo mai. Tradizionalmente l’animale è associato al concetto di fedeltà (emblematico è il nome con cui sovente viene appellato, Fido): attende paziente il ritorno del padrone a casa, quando può lo segue ovunque, abbaia impavido contro chi attenta alla sua sicurezza. In ambito evangelico l’immagine del cane conserva questo significato: è il simbolo dei missionari fedeli a Cristo e degli apostoli che accompagnano il Signore nel suo errare, non si separano mai da lui, ne condividono le sofferenze, i patimenti. E sembrano dotati di un fiuto particolare che permette loro di discernere la virtù dal vizio, il bene dal male.
Ancora, il cane è l’intrepido e temerario guardiano pronto a difendere la Chiesa dalle insidie del Maligno, che si aggira nelle tenebre; è metafora della fedeltà cieca e incondizionata dell’uomo all’Altissimo.
Nella maggior parte dei dipinti, specie quelli a carattere devozionale – ma non mancano citazioni del genere, anche nell’ambito della pittura profana -, l’animale non rappresenta un semplice complemento scenografico, ma costituisce un indicatore di segno finalizzato al condizionamento della raffigurazione stessa.
Risale al 1579 l’opera in cui Moroni ritrae Gian Federico Madruzzo, nipote di Cristoforo, principe-vescovo di Trento nonché organizzatore del Concilio. Il soggetto, a figura intera, addita un cane da compagnia seduto accanto a lui, alla nostra destra, nel dipinto: evidente l’intenzionalità aristocratica dell’artista, che allude contemporaneamente al ruolo dell’effigiato, fedele all’illustre parente, e a quello dello zio, servus ecclesiae. Nell’opera di Filippino Lippi, Tobiolo, diretto verso casa e tenuto per mano dall’arcangelo Raffaele, è scortato dal suo devoto cagnolino, che pare esprimere la propria felicità per il ritorno del padrone. Emblema della fedeltà, oltre al cane, è il girasole.
Fra i primi dipinti del Magnasco si annovera il ritratto di Gentiluomo col girasole (incerto l’anno di esecuzione, che comunque viene fatta risalire alla fine del Seicento): l’iconografia, tipica dell’epoca, fu dettata dallo stesso committente, intenzionato ad esprimere in tal modo l’assoluta devozione e sudditanza nei confronti di un superiore, cui probabilmente l’opera era destinata.
A testimoniare il valore simbolico del girasole, che si volge sempre al re degli astri, i motti pubblicati nel Mundus Symbolicus di Filippo Piccinelli (1687): “Hoc lumine vivo (Protectio & dependentia)”, “Non san questi occhi miei volgersi altrove”, “E da lui pendo, e mi rivolgo a lui”. Simbologia che ricorre anche in due quadri di Van Dyck: l’Autoritratto (1633), in cui viene usata per manifestare la propria riconoscenza al sovrano d’Inghilterra, e il Ritratto di sir Digby, commissionato da un cortigiano che auspicava di ottenere, attraverso questa dichiarazione visiva della sua devozione per il re, una prestigiosa posizione a corte.
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