La corsa all’oro degli antichi romani che da qui estrassero 110 tonnellate di minerale. Fondarono una cittadina. Reperti, polemiche

Una compagnia mineraria canadese ha chiesto al governo rumeno un risarcimento di 6,1 miliardi di euro per aver sospeso lo sfruttamento di una miniera d'oro di 2.000 anni, classificata dal 2021 patrimonio mondiale dell'UNESCO. La sua richiesta è stata respinta, venerdì scorso, dalla Banca Mondiale. Viaggio nelle viscere della terra e della storia

Una compagnia mineraria canadese ha chiesto al governo rumeno un risarcimento di 6,1 miliardi di euro per aver sospeso lo sfruttamento di una miniera d’oro di 2.000 anni, classificata dal 2021 patrimonio mondiale dell’UNESCO. La sua richiesta è stata respinta, venerdì scorso, dalla Banca Mondiale. I canadesi, raccogliendo consistenti finanziamenti, avevano pensato di sfruttare ancora il sito – dal quale gli antichi romani avevano estratto 110 tonnellate d’oro, destinate alle casse dello Stato della Città eterna – con un progetto che avrebbe comportato, secondo il governo rumeno, la distruzione delle colline e delle miniere romane. Accanto a queste preoccupazioni, il timore dell’inquinamento che veniva provocato dai sistemi tradizionali di estrazione. Certo oggi gli interventi hanno garanzie superiori, sotto il profilo del contenimento dell’inquinamento, ma non si può evitare il mutamento paesaggistico della zona. L’impresa intendeva cavare 300 tonnellate di oro e 1.600 tonnellate di argento.

Nel lontano 1999 aveva ottenuto licenza per l’estrazione e aveva avviato consistenti investimenti. Ma negli anni successivi il progetto fu contestato da ambientalisti, dalle Chiese, dalle popolazioni preoccupate per l’inquinamento da mercurio e cianuro. Pressato dalla contestazione popolare e politica, il Governo mise un vincolo sulla zona, inserita poi nel 2021 nel patrimonio mondiale dell’Unesco.

Roșia Montană – il luogo delle miniere romane – è un comune della Romania di 3 176 abitanti, ubicato nel distretto di Alba, nella regione storica della Transilvania. Sorge a un’altitudine di 850 metri.

In epoca romana il suo nome era Alburnus Maior e la prima attestazione del luogo risale al 131 a.C. su una tavoletta cerata del 6 febbraio di quell’anno scoperta in una delle gallerie delle miniere. Il termine alburnus – che in latino è un aggettivo ricavato da albus o alba, cioè bianco – è di evidente origine latina. Furono proprio i romani a fondare la cittadina a sostegno dell’azione di estrazione mineraria.
L’estrazione dell’oro è iniziata poco dopo l’anno 107 e si è conclusa nel 217 d. C., quando i romani hanno lasciato la Dacia. Si stima che in questi anni, i romani abbiano estratto circa 110 tonnellate d’oro, che sono state trasportate a Roma sull’acqua: sui fiumi Mureș e Danubio. Da qui sul Mar Nero per giungere poi al Mediterraneo.

Alburnus Maior era il più importante centro di estrazione dell’oro della Dacia romana. Fu abitato da diversi coloni illirici della Dalmazia. Si ritiene che nel periodo di massimo sfruttamento, nella miniera lavorassero, tra estrazione e indotto, circa 20.000 persone. La zona fu quindi oggetto di sviluppo edilizio, che avvenne con i criteri imposti dalla romanizzazione delle area conquistate. Gli scavi archeologici hanno portato alla scoperta di antiche abitazioni, necropoli, gallerie di miniera ed attrezzi da minatore, oltre a 25 tavolette di cera che riportano iscrizioni in greco e latino.

Dalle tavolette di cera è stato possibile capire che i minatori vivevano in insediamenti separati ed erano organizzati in associazioni minerarie. Probabilmente l’organizzazione di gruppi di lavoro omogenei consentiva ai romani di ottenere i massimi risultati oltre che rendere più ferreo il controllo. Un’attività del genere richiedeva inoltre una forte presenza militarizzata, sia per il controllo dei lavoratori che per la difesa del minerale conservato nei depositi.

Una viaggio nelle favolose regioni dell’oro ai tempi di Aburnus Maior è possibile fino al 21 Aprile 2024, al Museo nazionale romano -Terme di Diocleziano – Via Enrico de Nicola, 78 – Roma, con la mostra “Dacia. L’ultima frontiera della Romanità”.

La mostra, a cura di Ernest Oberlander direttore del Museo Nazionale di Storia della Romania, e di Stéphane Verger direttore del Museo Nazionale Romano, si riallaccia alle esposizioni di Madrid (Museo Archeologico Nazionale, 2021) e Bucarest (Museo Nazionale di Storia della Romania, 2022), ampliandone il percorso: a Roma infatti, ampliandone il percorso, sono stati allestiti 1000 oggetti provenienti da 47 musei rumeni, oltre che dal Museo Nazionale di Storia della Repubblica di Moldova per la prima volta esposti accanto ad alcuni reperti del Museo Nazionale Romano.

Ad aprire il percorso, il calco di una scena scolpita sulla Colonna Traiana (scena XXXII, spirale V), che ritrae tre arcieri Daci che tengono sotto tiro i Romani assediati all’interno di una città e che l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli fece colorare agli inizi degli anni ’70, dimostrando così l’esistenza del colore nell’architettura dell’antichità imperiale romana.

Accanto sono esposti capolavori come il Serpente Glykon da Tomis, raffigurazione in marmo di un ‘demone buono’ che guarisce dalle epidemie; il magnifico elmo d’oro di Cotofeneşti di manifattura tracia, con varie scene di sacrificio; l’elmo celtico di bronzo da Ciumeşti, col sorprendente cimiero a forma di aquila che stupisce per l’unicità della fattura e progettualità; il tesoro gotico di Pietroasele del IV secolo d.C. con l’eccezionale phiale (coppa) d’oro lavorata a sbalzo e le grandi fibule; e ancora alcuni bracciali d’oro daci, le tavolette in bronzo della Lex Troesmensium e il donarium di Biertan.


In mostra anche un’ampia selezione di importanti reperti – tra cui armi, vasi, ceramiche, monete, gioielli e corredi per i riti di magia – attraverso i quali è possibile scoprire la religione, l’arte, l’artigianato, il commercio e la vita quotidiana della antica Dacia.

Come un viaggio millenario durante il quale vedere l’evoluzione degli antenati geto-daci verso i popoli geti e daci; la trasformazione di una parte della Dacia in provincia romana; l’integrazione di questo spazio nel mondo romano; la sopravvivenza della civiltà anche dopo l’abbandono del territorio dacico da parte dell’esercito e dell’amministrazione di Roma; la convivenza degli abitanti del territorio con le popolazioni migranti.

Il fascino della mostra emerge dall’intreccio e dall’influsso reciproco delle civiltà, dalle trasformazioni profonde, dal processo di formazione e adattamento che ha portato alla creazione di un’identità culturale, per un lasso di tempo che va dalla fine della prima età del ferro e fino agli albori della civiltà europea attuale, in uno spazio percepito dai contemporanei del millennio delle migrazioni come “ultima frontiera della Romanità”, luogo dove il fondamento linguistico gettato dalla lingua latina e il nome dei romani sono sopravvissuti, nonostante le vicissitudini, fino ai nostri giorni.

Condividi l'articolo su:
Maurizio Bernardelli Curuz
Maurizio Bernardelli Curuz