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di Francesco Barocelli
Il volume Il Correggio nella Camera di San Paolo, edito da Electa, è curato da Francesco Barocelli, autore di un importante saggio. Proponiamo di seguito una sintesi di presentazione della sua interpretazione.
[S]i racconta che Gioacchino Murat, di passaggio a Parma ai primi dell’800, incuriosito dal gran parlare che ne aveva fatto il Primo Console a Parigi, visitasse la Camera del divino Correggio, uscendone subito dopo in fretta per complimentarsi con la superiora. Non è escluso che il buon uomo, generale nonché Maresciallo di Francia, avesse confuso la suorina con la badessa che aveva commissionato l’opera, e, probabilmente, l’autore con qualche contemporaneo.
La Camera del Correggio, in effetti, ricominciò a rivivere solo duecentosettantasei anni dopo il suo compimento e a far conoscere i suoi splendori qualche tempo dopo, quando G. B. Bodoni la passò alla stampa in un volume, nel 1800, esclusivo e raffinato che, trilingue, stimolò gli appetiti dei Francesi divenuti intanto i veri signori del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla. Se dovessimo ricordare che, qualche anno dopo, si giungeva da parte dell’Imperatore a richiederne il trasporto sul Quai de la Seine, non ci inganneremmo. Il Musée Napoléon era pronto ad ospitarla, fatta salva la fattibilità di un progetto malsano, ma ormai giunto a buon punto, che Dominique Vivant Denon vide interrotto solo dalle sfortune delle campagne di guerra del Bonaparte. Dopo Lipsia non se ne sarebbe fatto più nulla! E’ il caso, uno dei pochi, in cui la guerra preveniva la perdita irreparabile di una grande opera d’arte.
Ma tutto questo rientra nel “post-fatto”. Se dovessimo guardare a qualche secolo prima ci troveremmo di nuovo sommersi da eventi che se non di guerra, di poco ne erano distanti. Sicché la Camera del Correggio e il monastero di cui è parte possono ben dirsi espressione di una civiltà complessa e piena di sorprese, quella del nostro Rinascimento.
Parte in causa in questo caso era Francesco I di Valois, altro francese sovrano e grande mecenate, il quale avrebbe avuto buon gioco a far saltare gli equilibri all’interno del Ducato di Milano e al territorio che vi dipendeva.
Centri di potere economico e dinastico delle città emiliano-lombarde tra il XV e il XVI secolo erano rappresentati dai monasteri, un piatto prelibato per il potere politico, interessato al controllo delle loro finanze. Per questo motivo tanta parte della critica ha intravisto le ragioni che portavano la badessa di San Paolo di quegli anni, la più celebre e nota, Giovanna Piacenza, a rivendicare una propria indipendenza dal potere politico, impiegando le disponibilità economiche a beneficio del proprio monastero.
Una badessa
di nome Giovanna
La religiosa chiamata in causa ebbe dalla sua i favori del più bell’appartamento “ecclesiastico” (dopo quello dei papi) che possa aver conosciuto il Rinascimento. Né avvenne per rivalsa o vanagloria.
Giovanna Piacenza aveva avuto un’alleata in una badessa, sua parente, molto più anziana di lei, che l’aveva introdotta nel convento e ne aveva favorito l’ascesa, Cecilia Bergonzi. A queste due religiose, al governo del monastero quasi ininterrottamente tra il 1486 e il 1524, va riconosciuto quel che possiamo definire oggi il “Rinascimento nel monastero di San Paolo”.
Faticheremmo a trovare progressi simili nell’ambito benedettino a pari latitudini, per quanto Parma rappresenti un’importante eccezione (i monasteri femminili di San Quintino e Sant’Uldarico si allineano alla riforma dei conventi maschili di Santa Giustina di Padova, San Benedetto Po, di Praglia, al medesimo San Giovanni Evangelista di Parma, ecc.).
In breve, Giovanna, raccogliendo l’eredità di Cecilia, organizza uno spazio conventuale nuovo; i chiostri, l’“horto” claustrale, l’oratorio di Santa Caterina, ecc. Eredita l’opera di un pittore, Alessandro Araldi, la cui fedeltà al monastero è indiscussa quanto le sue opere sono ormai infiacchite e fuori moda ma compiute con apparente buona volontà e con velleitari quanto eclettici tentativi di aggiornamento.
Nell’appartamento che Giovanna si fa erigere ex novo al centro del monastero, Araldi e collaboratori, grazie a qualche nobile suggerimento, potranno dare il meglio di sé. Qui la badessa si fa costruire di fatto il suo appartamento, un “centro direzionale” nuovo nel cuore del monastero, tra i due chiostri principali, con l’effetto di rendere meglio organizzato lo spazio claustrale e più coeso il gruppo di monache che ella guidava.
Dal Salone alla Stanza
di Alessandro Araldi
E’ noto come l’ambiente si componga di un salone e di una serie di camere e camerini, dei quali i principali sono la Stanza dell’Araldi e la Camera del Correggio, entrambe a pianta quadrata. Dalla grande sala si accede alla prima camera dell’appartamento riservato; è la stanza affrescata da Araldi, ove la volta si compone di tre lunette per parte e a padiglione nella parte sommitale.
Se le figurazioni con Pero che allatta il padre Micone e la Monaca anziana con il liocorno sono rappresentative della carità e della verginità, esse non fanno che declinare un concetto normativo, quello dell’“oboedientia”, dell’ubbidienza claustrale, contenuta nelle Regole benedettine; alle quali sembrano uniformarsi le figurazioni successive, come nella lunga citazione mitologica che narra la storia dell’obbedienza dei due gemelli Cleobi e Bitone per la madre Cidippe sacerdotessa di Giunone. Analoghi temi evocano le successive scene di sacrificio per le mani di monache, vestali o deità, sino a giungere alla condanna dei vizi capitali.
Ma Araldi non poteva che attenersi ai dettami delle sue committenti. Ecco, ad esempio, interposta l’insolita citazione dell’“Impossibile” (due piedi tagliati che camminano sull’acqua), dagli Hieroglyphica di Orapollo, allusivo ad un passo delle Regole, per il quale tutto diventa fattibile a chi usa obbedienza ai voti monacali. Anche le scene bibliche che si dividono i tondi e in riquadri del velario del soffitto (un tentativo di adeguarsi agli ornati di gusto tardo-mantegnesco, del Falconetto, di Nicoletto da Modena, dello stesso Pinturicchio) evocano in vario modo episodi del Vecchio e Nuovo Testamento in sintonia con il tema dell’obbedienza a Dio Padre: Abramo e Isacco, Gesù e la Samaritana, Cristo e i mercanti, la parabola di Cana, sinonimo dei voti di obbedienza in ambito benedettino, ecc.
Qui anche l’immagine dell’apostolo Paolo, titolare del convento, reca intorno citazioni bibliche sul tema del “Vas” e della “Domus”: il Vaso è Paolo, il “Vas Electionis”, che indica il rispetto del proprio corpo (Rn 9,20), ma la “Domus” è rappresentata dal nuovo edificio conventuale, il luogo dell’ospitalità e dell’obbedienza: le virtù che introducono al tema normativo dell’umiltà. Al quarto gradino della benedettina “humilitate”, nel testo delle Regole, troviamo il passo che introduce al versetto del Salmo LXV scolpito sull’architrave del camino di questa stanza: “TRANSIVIMUS PER IGNEM ET AQUAM ET EDUXISTI NOS IN REFRIGERIUM MDXIIII”.
E’ ripresa biblica ben nota alla tradizione benedettina. Ma essa evoca nel ’500 anche il martirio di Cecilia, santa eponima dell’anziana badessa, che aveva resistito alla tortura dell’acqua bollente. Attraverso questa duplice citazione, in simultaneo riscontro con le immagini delle monache offerenti, pare evidente come nella topografia dell’appartamento questa stanza venisse ad interpretare un omaggio a Cecilia, della badessa perciò che aveva preceduto Giovanna e alla quale ella doveva filiale gratitudine.
Un passo
che vale un secolo
Ora, la distanza tra la stanza dell’Araldi e quella del Correggio non può in nessun modo essere colmata in relazione alla committenza, ai contenuti mitologici, alla relazione ideologica tra gli elementi, alla pressione di qualche erudito. E’ una novità assoluta di cui l’autore è interprete unico e mirabile. In realtà si tratta di qualcosa di rivoluzionario: una civiltà nuova, dell’intelletto, della visione, della natura, trasforma quell’ordine antico, ne fa un cielo moderno che si spalanca dinnanzi agli occhi di chi guarda. E questo accade appena ad un passo, varcata la soglia della porta che divide le due stanze.
Il Correggio dinnanzi ad un’antiquata volta ad ombrello (autore il lombardo Jorio da Erba), la reinterpreta totalmente, la trasforma; è come se da un interno la trasponesse in un esterno, secondo una propria “architettura” vegetale, fatta di esili canne di bambù ricoperte di un florido tappeto di verzura, di fronde e di frutta. Piega ad una nuova visione la struttura, e la aggiorna ad un gusto moderno, imprevisto, inatteso, elegante. Si aprono, come è noto, in questo “berceau” sedici ovati, con putti color carne che giocano con una torma di cani da caccia (quelli di Diana) e con gli strumenti venatori della dea.
E’ lo spazio del naturale e dell’elemento aereo, nel quale si intravede il cielo sovrastante. Mentre, al di sotto, le lunette, che definiscono il fregio con una tessitura mai vista, sono in finta pietra color grigio-alabastro, diventando lo spazio della luce interiore, dell’“antiquitas”, della memoria, come se esse con le piccole “statue antiche” che ospitano componessero la “collezione di scavo della badessa” (Longhi), espressione del suo amore per un collezionismo dotto e pieno di significati esoterici: le immagini degli “Dei degli antichi” si sostituiscono alla mitologia biblica della stanza precedente. Sono questi elementi, natura e artificio, luce naturale e luce aerea, che concorrono a fare della stanza uno straordinario osservatorio della mente.
Un pittore e una sorpresa
La badessa si trovò di fronte ad un pittore sorprendente. Del resto i benedettini di Polirone, monastero dove aveva operato il giovanissimo Correggio, non avevano cercato un nuovo Parrasio?
E’ il momento in cui si afferma definitivamente una nuova civiltà della forma come della esegesi delle immagini, e questo avviene nel solco della civiltà apertasi con Michelangelo, Raffaello, Leonardo. La Camera di San Paolo perciò nasce sulla base di una volontà alla quale partecipano committenze umanistiche, ma soprattutto un giovane artista perfettamente informato di ciò che sta accadendo nella civiltà del tempo.
Di Diana e di Giovanna
La Camera di Diana prende motivo dal fatto che per gli antichi, come riferisce Macrobio, l’appellativo “Iana”, per una ragione eufonica, acquisiva la “D” iniziale divenendo Diana, perciò uniformandosi a Giana, e poi nell’umanistico Gioanna, Giovanna. Questo è solo il più semplice tra gli esempi dei recuperi dall’antico che vi troviamo innestati sulla forma ancora calda del moderno. E’ il primo, arcaico “rebus” che vediamo diffuso tra le figurazioni in quest’ambiente di spaziata cultura e di sobria eleganza. “Diana”, la divinità che guida il carro effigiata sul camino, rappresenta il punto di partenza e quello di arrivo, dal quale apparentemente parte tutto: giacché si rivela Dea della Fortuna, ma anche Diana Lucina, Vesta e a suo tempo Era-Giunone (Gombrich).
“Vesta” è la seconda presenza della Camera che non a caso regge la fiaccola come “Diana Lucifera” e come “Minerva”. Ma di Vesta occorre estrapolare quel che Macrobio nei suoi Saturnalia dice a proposito della Dea del focolare e dei consessi femminili, preposta alle cure muliebri che obbligavano ad una diuturna castità.
Rinviando alla narrazione del libro, diremo che emerge anche in questo caso lo stesso tema delle “virtù” che informano nelle lunette almeno quattro figure: Vesta, Minerva, Innocenza e Purezza. Ma questo richiamo ai temi virtuosi è premessa per evocare quel che vi sta dietro, la pienezza degli elementi naturali in un ambiente in cui “Giove” è metaforicamente presente, ispira ogni cosa e le virtù medesime. Giacché lo spazio vive di una unità assoluta, di uno straordinario equilibrio formale e ideologico (tra sentimenti pitagorici, platonici, aristotelici e stoici).
Era, ad esempio, è sinonimo in greco di terra, e rovesciati i termini in Aer è identificabile con l’aria. Ma anche Pan vive di una sorta di ambiguità semantica, in quanto è rappresentazione dei quattro elementi di cui si compone il mondo, perciò della totalità. Si sa come gli umanisti parmensi coi quali era in contatto Giovanna fossero vicini a Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola. Così Taddeo Ugoleto o Francesco Maria Grapaldo. Altri erano di ampie frequentazioni intellettuali, dal medico Gian Marco Garbazza, al canonico Pascasio Belardi, a Giorgio Anselmi.
Quest’ultimo, oltre che responsabile di una coeva, quanto mediocre, produzione poetica in latino e in greco, era un raffinato collezionista di codici antichi. Tra i suoi volumi si enumerava la trascrizione dei sei Inni di Callimaco, dei quali uno era dedicato a Diana. Qui la dea è raccontata nella sua giovinezza, quando ella chiede al padre Giove un carro trainato da cerve, una muta di cani, un arco e una faretra. E Giove vede di non farle mancare la protezione di Pan che aveva condiviso con lui l’infanzia sul monte degli Arcadi.
Le circostanze narrate sono prossime a quelle che ritroviamo intorno alla figura di Diana e gli attributi sono facilmente individuabili in quelli della scena rappresentata dal codice umanistico. Dunque, come l’Arcadia era piena dell’essere di Giove, così anche la Camera si colma di Giove, con quel binomio intorno al quale è possibile far dialogare Diana e la divinità suprema.
Ma non potremmo ritenere che nel campo delle allegorie ci si potesse fermare qui. In questo mirabile cenacolo, fatto di grazia senza orpelli, aiutano nella comprensione le iscrizioni superstiti che si distribuivano tra Camera e Camerino (queste ultime trasferite nell’800 all’ingresso, nel cosiddetto Oratorio), tratte dagli autori classici latini che le immagini indirettamente evocano. Eccone alcune.
“Iovis omnia plena” riprende un motto che è sull’architrave della porta che collega la Camera del Correggio con quella dell’Araldi: secondo una formula contratta in acronimo, coniuga il verso virgiliano con il nome della badessa IO [anna] PL [akentia]. Si tratta dell’Egloga III (v. 60), nella quale i pastori fanno a gara ad inneggiare alla natura. Pare evidente come tutto si muova tra sentimenti panteistici e senso della responsabilità soggettiva. Dai Fasti di Ovidio (I, 481) ci vengono una iscrizione piena di commozione (“Sic erat in fatis”) e una dimostrazione di autoconsapevolezza: “Sua cuique mihi mea”. “Eripe te morae” è ripresa oraziana (Carmi, III, 29,5) che richiamava ad un atto di impegno, esortazione presente anche nella normativa monastica. Il tema della pienezza di Giove, oltre il Pan che suona nella conchiglia, trova il corrispettivo nelle Tre Grazie, pensate nello scambievole gesto offerente e di origine neo-stoica.
Si tratta di virtù etiche, quelle medesime che trovano ispirazione nei principi ai quali si uniformava la badessa secondo la lezione che ella amava ripetersi dinanzi a questo alfabeto iscritto nell’intreccio tra immagini e memoria, tra religione dell’antico e vocazione al moderno, tra lo spirituale e l’estetica del bello.
Pitagora e il moderno
L’iscrizione più celebrata (“IGNEM GLADIO NE FODIAS”), posta sull’architrave del camino, è un’ulteriore allusione al fuoco, che le Vestali avevano il compito di tenere eternamente acceso. Questo motto, che ha come padre Pitagora, adottato da Platone e poi Porfirio, Diogene Laerzio, san Gerolamo, Erasmo da Rotterdam, da L. G. Gyraldi, ecc., aveva assunto anche altri significati nel corso della sua lunga tradizione; tanto che Affò e Panofsky lo interpretavano come una sorta di minaccia verso gli avversari del monastero “avvertiti a non prendersela con chi più può”.
Il senso, in realtà, dell’iscrizione muove da un sacro rispetto per il “fuoco”, uno dei luoghi topici di questo ambiente, identificabile con l’ardere della Divinità. “Ignem gladio ne fodias” vuol significare: “Bada a non fendere il fuoco con la spada”; non compiere azioni vane dinnanzi alla divinità confidando sulle tue forze umane. Tra le virtù, dopo quella dell’obbedienza, v’era quella dell’umiltà e poi, per la badessa, quella della temperanza. Era suo dovere “odiare i vizi, ma amare le sorelle e saper correggere con prudenza… per non spezzare il vaso (le personalità più deboli)”. Perciò le si addicevano non atti intemperanti, ma l’equilibrio ed una stoica condotta di vita: “Ignem gladio ne fodias”. Sull’architrave della porta di fronte al camino sta incisa l’iscrizione: “OMNIA VIRTUTI PERVIA”. E’ la risposta umanistica che la badessa rende al proprio monito.
L’impresa di Giovanna (immagine e motto) sta ad effigiare la sua vocazione alle virtù. Giacché ogni cosa è accessibile alla Virtù, avrebbe aggiunto Correggio, alcuni anni dopo, dipingendone l’Allegoria per lo Studiolo di Isabella d’Este. Ma questo è già parte di un’altra storia.
Il Correggio nella Camera di San Paolo, a cura di Francesco Barocelli. Scritti di Ireneo Affò, Gherardo de’ Rossi, Oskar Hagen, Roberto Longhi, Erwin Panofsky, Francesco Barocelli. Electa, 372 pagine, 70 euro.
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La Camera di San Paolo, affrescata da Correggio fra il 1518 e il 1520, salì alla ribalta della critica solo nel Settecento, grazie a Raphael Mengs. Da allora è stata studiata dai più grandi critici e storici dell’arte, da Longhi a Panofsky: vengono qui raccolti tutti gli scritti dedicati alla celebre opera, offrendo una ricca e interessante interpretazione del ciclo. Francesco Barocelli, professore dell’Università di Parma e direttore della Pinacoteca Stuard della città emiliana, offre una lettura puntuale e accurata del ciclo di affreschi. Echi araldici e rievocazioni mitologiche si fondono nella più leggiadra eleganza. La volta della cupola è fittamente coperta da un pergolato di foglie e festoni di frutta scandito in sedici spicchi; gruppi di putti, armati di attrezzature venatorie, sono intenti a un gioco divertito con alcuni cani, evidente omaggio alla caccia e a Diana, cui il ciclo è dedicato.
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