La genialità spesso corrosiva di Alessandro Magnasco, combinata alla richiesta di clienti che avevano maturato una posizione anticlericale di stampo massonico e illuminista, portò alla creazione di questi dipinti che il sulfureo pittore rese intensa con eleganze erotico e cioccolata.
Adagiata su una sedia imbottita, con i piedi sottili poggiati su un cuscino di velluto e l’espressione distesa, sorseggia una tazza di cioccolata fumante. Contrariamente a quanto si possa pensare, la situazione non si riferisce ad un’aristocratica intenta a gustarsi un momento di quiete, bensì ad una monaca. Religiose calate in un contesto mondano e addirittura lascivo: questa è uno dei piani iconografici più originali cui si appassionò, poco prima della metà del XVIII secolo, Alessandro Magnasco (1667-1749), pittore genovese specializzato in dipinti a soggetto sacro.
La protagonista della Cioccolata – bevanda peccaminosa, di gran moda tra gli aristocratici – è raffigurata all’interno di un ambiente sontuoso (uno degli appartamenti privati del monastero, riservati alle esponenti delle famiglie aristocratiche), insieme ad alcune consorelle e ad una fanciulla sfarzosamente abbigliata seduta accanto a lei – presumibilmente un’allieva, una sorella o una dama di compagnia -, intrattenuta da un vivace cagnolino. Nella stanza illuminata da una luce calda e soffusa, il sacro si confonde con il profano: se sullo sfondo campeggia un arco riccamente intarsiato – adornato da un ovale con il monogramma di Cristo, IHS – che inquadra un piccolo e prezioso altare per le devozioni private, sul pavimento marmoreo poggia un violoncello, mentre sulla console di fronte alla monaca sono disposti uno specchio e, sparse, le suppellettili per la toletta. Siamo ben lontani da atmosfere di pio raccoglimento: le religiose stanno assaporando un momento di frivola distensione, che ben poco si addice alla vita conventuale.
La medesima vanità traspare nelle Monache in giardino, ove il senso di concupiscenza e sfrontatezza emerge in maniera più esplicita che nelle altre tele. Come suggerito dal titolo, le effigiate sono all’aperto: oltre la balaustra della terrazza si apre uno sfondo lussureggiante e rigoglioso. Accomodata su uno scranno, una discinta religiosa discorre con una giovinetta impegnata in un lavoro a maglia, mentre un’altra suora, a sinistra, vigila l’operato dell’educanda. A sottolineare l’atteggiamento effimero della monaca i fiori che le ornano la veste, appuntati sulla spalla, tipico vezzo di una donna mondana e disinvolta. Nel Parlatorio l’autore propende per un atteggiamento ancor più disincantato e smaliziato, addirittura comico: accalcate dietro alla grata del parlatorio, concitate e sguaiate, le protagoniste assistono ad un concertino offerto da alcuni gentiluomini (un suonatore tocca il violoncello leggendo lo spartito posato sullo sgabello a destra, mentre un damerino canta seguendo anch’egli il testo su un foglietto).
Il sentimento del pudore pare essere sconosciuto alle religiose, la cui civetteria è sfrontata ed eccessiva, tanto che si ha l’impressione che, se disponessero della vigoria fisica necessaria, non esiterebbero a sfondare l’inferriata, insuperabile ostacolo che le separa da quegli uomini piacenti. Queste opere rivelano dunque un lato oscuro, anticlericale, del Magnasco, la cui fortuna era imprescindibilmente legata – come si ricordava – alla produzione di quadri sacri? Sarebbe erroneo ipotizzare un improvviso “ripensamento” da parte del pittore, per giunta negli anni della maturità, quand’era prossimo alla morte. Si tratta piuttosto di una denuncia dai toni veementi e al tempo stesso beffardi nei confronti degli istituti di clausura, avviati nel Settecento ad un lento e inesorabile declino e accusati, prima dagli illuministi e poi dagli stessi cattolici, di essere divenuti luoghi di ozio e di consumo parassitario delle rendite.