di Roberto Gramiccia
[H.]H. Lim è un artista cinomalese che vive a Roma da trent’anni. La sua natura più profonda è apolide. Definirlo “cittadino del mondo” è poco. Quando nel ’76 arrivò nell’Urbe per iscriversi all’Accademia, non lo fece con il consenso della famiglia. I suoi, infatti, erano contrari. Il padre, imprenditore cinese emigrato in Malesia, attivo nel mondo dell’industria cosmetica, lo avrebbe voluto al suo fianco per riceverne un sostegno nell’attività aziendale. Ma il figlio voleva fare l’artista e non accettò compromessi (dietro la sua mitezza c’era e c’è un carattere di ferro). Per convincere i genitori usò uno stratagemma: disse loro che si sarebbe iscritto alla Facoltà di Architettura, la qual cosa fu ritenuta dal padre e dalla madre accettabile. Si iscrisse invece all’Accademia e per anni mantenne il segreto.
Nel momento in cui, dopo molto tempo, la madre di Lim decise di venire a Roma per rendersi conto di cosa effettivamente stesse facendo il figlio, non fu più possibile nascondere la cosa. Fu allora che il giovane condusse la madre alla Galleria nazionale d’arte moderna, confidando nell’emozione che avrebbero suscitato in lei tanti capolavori: sarebbe stato un buon viatico per la grande e imbarazzante rivelazione. Giunti davanti ad un’opera di Lucio Fontana, Lim si fermò per commentare con entusiasmo e ammirazione uno dei celeberrimi tagli. La madre lo ascoltò con attenzione. Ma alla fine, come per liberarsi da un peso, chiese: “Hai studiato tutti questi anni per arrivare a ciò?”. Non si sa, esattamente, cosa rispose Lim. Si sa per certo che non si scoraggiò. Lo dimostra la sua carriera che, da allora, si è distesa per il mondo, assicurandogli successi e riconoscimenti, a partire dalla fine degli anni Ottanta sino ad oggi. In gallerie private prestigiose come Sprovieri, l’Attico, la Nuova Pesa e Pio Monti, in spazi pubblici importanti come i Fori Imperiali, la Gnam, la Galleria comunale d’arte moderna di Roma e in musei inglesi, belgi, francesi. Sino alla “Tirana Biennale 3”, alla mostra al Museo Manzù di Ardea e alla Frac des Pays de la Loire “Super” a Carquefou. Un lungo percorso che lo ha reso un autore noto e stimato ovunque.
Il filone neo-oggettistico internazionale (Koons, Kirchoff, Mucha) è quello cui può essere ricondotta, pur con la necessaria cautela, l’investigazione di Lim, il quale tuttavia si è sempre distinto per una cifra di originalità tutta personale. Oggetti provenienti da mondi della cultura alta o del quotidiano vengono da lui utilizzati o rappresentati per proporre accostamenti irrituali, capaci di provocare slittamenti di senso e cortocircuiti logico-formali. In ciò è evidente il legame con il metodo che fu di Boetti e di Gino De Dominicis, due autori ai quali Lim ha guardato con interesse mischiato a sincera e profonda ammirazione. Il linguaggio inteso, come il filosofo insegna, nella sua accezione di “dimora dell’essere” è da sempre al centro della sua attenzione. Di esso le varie forme di comunicazione, razionali e irrazionali, verbali e non, sono le strutture fenomenologiche da indagare attraverso l’arte.
Agli anni Novanta risalgono le sculture in cui, riprodotti a sbalzo o mediante calco, compaiono personaggi od oggetti tratti dal mondo e dalla cultura occidentale e orientale (utensili, armi, aeroplani, elicotteri, biberon, dragoni, divinità buddiste, sciabole). A questi vengono associate parole e frasi tratte da linguaggi sacri o poetici, ma anche pubblicitari e vernacolari. Tipici come per il lessico “televisivo” o atipici come nel caso dell’idioma usato dai sordomuti. Le scritte percorrono spesso la superficie delle opere in senso opposto a quello consueto in modo tale che la lettura non risulta agevole ed automatica. Questa “lettura con handicap” obbliga l’osservatore all’esercizio di un’attenzione critica che ormai è merce rarissima nelle realtà ipermediatiche metropolitane. Insomma, bisogna essere svegli per leggere quelle frasi.
Effetti stranianti e poetici emergono da un gioco dell’intelligenza creativa che ritrova nell’altro, negli altri, gli interlocutori indispensabili ad una relazione intersoggettiva che appare come un fondamento ontologico dal quale è impossibile prescindere. Essere significa essere in rapporto con l’altro. Perciò il dandismo di Lim si riconcilia con un atteggiamento ispirato ad un senso di democrazia sostanziale, poiché – è una sua convinzione – anche l’aristocratico più snob “senza gli altri – i loro oggetti, le loro parole – semplicemente non esiste”. In questo senso, volendo azzardare una lettura più penetrante, l’intera parabola del suo lavoro sembra derivare dal Levinas di Totalità ed infinito: “La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia, una riduzione dell’Altro al medesimo”. Da qui è derivata l’obliterazione dell’altro da sé che ha avuto come conseguenza estrema l’“ontologia della guerra”. Discepolo, consapevole o no, di Levinas, Lim ha bisogno dell’altro, ritorna continuamente all’altro e attraverso di esso alla globalità. In questo, aiutato dalla sua cultura orientale ma anche da un’attitudine al “fare” che deriva dalla lunga permanenza in Occidente. Le relazioni fra diversi (diversità di genere, di religione, di classe, di etnia) sono quelle che valgono. Le stesse che sono realizzabili non grazie a un idioma, ma a tutti i possibili idiomi, verbali e gestuali, naturali o tecnologici. Tutto ciò che permette umanisticamente di porsi in contatto con il “volto” (ancora Levinas) dell’altro.
Circa 60 kg di saggezza è il titolo di una delle prime performance di Lim, aduso ad ogni tipo di espressione artistica, nella quale si anticipava una sorta di “manifesto di equilibrio e di silenziosa sapienza”. L’autore “si limitò” in quella circostanza a restare in piedi su un pallone da basket per oltre un’ora. Un tempo interminabile, che richiede non solo forza muscolare ed equilibrio ma anche concentrazione, serenità e pazienza. Uno in disaccordo col mondo non potrebbe mai farlo.
E’ questa interiore “armonia disponibile” che ha consentito all’artista cinomalese di gestire per anni un’esperienza come quella romana di Edicola notte. Uno spazio stretto, quasi solo una fessura, sul Lungotevere, dove
– nottetempo – hanno esposto gli artisti più importanti al mondo. Con la sua Edicola, Lim ha messo a disposizione dei colleghi un megafono attraverso il quale anch’egli, insieme a loro, continua a parlarci.