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intervista di Alessandra Zanchi
Maestro, innanzi tutto, può raccontarci come ha iniziato la sua carriera di artista, dopo l’apprendistato presso la bottega di restauro di suo padre? E cosa le ha trasmesso questa particolare formazione?
Mi ha trasmesso i germi dell’arte ovvero, sul piano pratico, un magazzino di informazioni non di tipo accademico bensì direttamente utilizzabili, e, sul piano psicologico, il senso del “restauro” come atteggiamento di rispetto dell’esistente e di non violenza su di esso: meno è evidente il segno della mano nell’intervento e meglio è! D’altra parte, la successiva esperienza in pubblicità, prima alla scuola di Armando Testa e poi come professionista, mi ha insegnato ad “aggredire” e a mettere in evidenza un pensiero attraverso un’immagine. Con il senno di poi, penso proprio che siano questi due i fondamenti opposti ma complementari della mia arte.
Le sue prime opere risalgono alla metà degli anni Cinquanta, in un momento in cui si cercava di superare l’approccio neo-espressionista dell’arte in urto verso la realtà, tipico del secondo dopoguerra; per intendersi: il dripping di Pollock, i “tagli” di Fontana, “l’urlo” di Bacon. Quali sono le personalità dell’epoca che hanno maggiormente contribuito alla sua crescita artistica? Quali gli elementi in comune e quali i nuovi indirizzi da lei perseguiti?
Bacon mi piaceva per la sua dimensione vicina all’umano, che risponde alla mia inclinazione personale, ma non non ne condividevo l’azione di disturbo e trasfigurazione. I miei autoritratti sono, come in Bacon, un’unica figura su di un fondo, ma sono privi di qualsiasi sfogo informale. Frontali o di spalle, sono sempre assolutamente neutri. Bacon, Fontana, Pollock erano affascinanti per il bisogno di denuncia che esprimevano. Negli anni del dibattito tra astratto e figurativo, concepiti rispettivamente come moderno e passato, la figurazione era un rischio.
Per questo ammiravo Bacon o Balthus, che accettavano quel rischio! Ma il divario tra i due poli rimaneva irrisolto. Per me era diverso. Da quando, a diciott’anni avevo visto, accompagnato da mio padre, la “Flagellazione” di Piero della Francesca ad Urbino, mi era cresciuta sempre più chiara nella mente l’idea che si poteva andare avanti riaprendo la questione della prospettiva, tutt’altro che finita o superata come si credeva allora, e con essa riunire i due poli, astratto e figurativo, nello spazio dipinto, o non più dipinto…
Come è nata l’idea rivoluzionaria dei “Quadri specchianti” (1962) e subito dopo dei “Plexiglas” (1964)?
Ecco… esattamente, con lo specchio si ottiene l’incontro tra due prospettive opposte, quella davanti e quella dietro la superficie specchiante. Si ottiene cioè il capovolgimento che Duchamp, con il “Grande vetro”, ancora non aveva raggiunto, perché era sempre e solo “in avanti”. Con i “Plexiglas”, poi, l’oggetto e il concetto uniti entrano nello spazio reale. Ai tempi ancora non si parlava di “arte concettuale”, ma per me era evidente che solo l’idea poteva distinguere la zona dell’arte dalla zona della banalità: la parte di muro coperta dal plexiglas trasparente da quella non coperta. Inoltre, l’applicazione di elementi fotografici con figure umane sugli specchi e con vari oggetti sui plexiglas funziona come duplicazione del reale, che si ripropone fisicamente nello spazio dell’arte.
Celant definisce la sua arte discontinua, molteplice e sempre mutevole. E lei una volta ha detto che “l’idea proprio non riesci a trovarla…”. Tuttavia, si può dire che esiste un filo conduttore nel passaggio da una serie di opere all’altra, in una sorta di germinazione continua e spontanea? Molti sono anche i concetti che ritornano, pur nel variare delle soluzioni tecniche: il problema del “tempo”, per esempio, è una componente fondamentale, non è vero? E lo è anche la dialettica tra poli opposti, mi pare…
Certo, per me il conflitto tra gli opposti è fondamentale per produrre energia proficua (un po’ come… l’energia elettrica), e non è mai possibile prescindere dal concetto di “tempo”, giacché lo spazio è sempre vestito dal tempo. Nella raffigurazione, tutto cambia; nei “Quadri specchianti” si riflettono attimi di vita e parti di mondo, ma nessuno si ferma; anche l’immagine fotografica fissa, che dialoga con quelle specchiate in movimento, è cambiata: se un tempo era il segno del presente, oggi è ormai segno del passato. Per me è molto importante il concetto di “differenza” – e quindi di mutamento continuo – anche nell’espressione artistica, che è sempre diversa perché ogni momento in cui nasce è diverso. Oggi non ci stupiamo più del fatto che tutto si trasforma rapidamente, ma negli anni Sessanta l’idea era ancora inconcepibile!
Dopo i “Plexiglas”, l’idea degli “Oggetti in meno” (1965). In quale rapporto si pongono questi oggetti tratti dal mondo del consumo, ma “rifiutati”, in un certo senso, con la poetica della Pop Art americana o del Novéau Réalisme europeo? O è più corretto vedere in essi l’inizio dell’Arte Povera teorizzata da Germano Celant?
Lavorare con gli “Oggetti in meno” voleva dire lavorare esattamente sulla morte del consumismo, utilizzando oggetti quotidiani e “poveri” (lampadine, fili elettrici, candele, acqua e sapone, cartone, giornali). Essi si oppongono quindi all’esaltazione del meccanismo consumistico, tipico della Pop Art. Tuttavia, merito della Pop americana e del Novéau Réalisme europeo è l’avere fatto entrare prepotentemente l’oggetto reale nell’arte.
Opera emblema dell’Arte Povera è la notissima “Venere degli stracci”, del 1967. Gli stracci, oltre ad essere un materiale povero, rappresentano anche l’ingresso del mondo della vita concreta nell’arte. Contemporanee sono, per altro, le sue prime esperienze performative. Può farci qualche esempio? E come si risolve il problema della documentazione, che non può essere che fotografica?
Lo straccio è l’abito usato, e quindi la fine della moda. Gli stracci aumentano ogni volta di più nelle varianti successive dell’opera. Il disordine della vita, ovvero gli stracci stessi, spinge sempre più indietro la Venere, metafora dell’arte del passato, e prende il sopravvento. Nasce cioè un nuovo rapporto tra arte e pubblico. L’arte deve interagire con la gente, la società, il mondo, e creare insieme ad essi. Ho fondato così il gruppo dello “Zoo”, con oggetti e attori che si muovevano per la strada. Ed era la fotografia, per me fondamentale sin dall’inizio, l’unico mezzo di documentazione visiva. La fotografia è uno strumento formidabile e importantissimo, che cristallizza l’attimo.
Negli anni Settanta torna lo specchio, ma in modo nuovo. La “Divisione e moltiplicazione dello specchio” (1975) ha una valenza ancora molto concettuale. Negli anni Ottanta, invece, lei si avvicina alla scultura in poliuretano o in marmo. Un recupero della tradizione? O, ancora una volta, una variante camaleontica dove non muta la sostanza?
Dividere lo specchio voleva dire andare avanti nella ricerca affrontando il problema spirituale, ovvero del senso religioso. Era l’idea della totalità e dell’universale, che si può cogliere solo nella divisione e moltiplicazione. Il riflesso del reale nelle sue mille facce. La scultura è stata invece un momento anomalo ma necessario. Il mio cervello era diventato un deposito di memorie che bisognava fare uscire. Nel progredire verso la modernità restava il ricordo dei monumenti nelle piazze delle città. Erano come dei frammenti che presero forma grazie al poliuretano, facile e rapido da lavorare; formidabile per tradurre subito l’idea quasi in stato di trance.
I frammenti poi si ricomponevano in coppie uomo/donna o fronte/retro, come nelle due figure umane incrociate di “Dietrofront”, a piazza Porta Roma di Firenze. Certo, anche qui permane sempre il gioco dialettico tra la parte e il tutto.
La riflessione sulla materia sfocia nei lavori realizzati con materiale anonimo, brutale e incolore, accomunati dal titolo “Poetica dura (quarta generazione)”, del 1985; poi, con “Anno Bianco”, la manualità viene nuovamente abbandonata a favore di un’opera concettuale fatta di spazio e di tempo: un’opera che è durata un anno, il 1989. Può descriverci questa esperienza?
Gli oggetti neri, chiamati altresì dell’ “Arte dello squallore”, sono come l’universo che contiene dei punti luminosi, ovvero il nulla che contiene il tutto, l’assenza che contiene la presenza. Il contenitore si fa contenuto e diventa superficie o volume materico, gigantesco, scuro, che rifugge ogni definizione.
Ma dal nero, per la solita logica degli opposti, si passa al bianco, alla vita che si imprime e lascia un segno. “Anno bianco” è stato un anno di storia che ha lasciato le sue tracce tramite la fotografia su lastre di gesso plasmate a mano o di marmo, come fossero pagine di un taccuino. Sono tracce di episodi, come la caduta del muro di Berlino, che testimoniano l’importanza di un momento per l’intera collettività.
Ci parli infine di questi ultimi anni, del “Progetto Arte” del 1994 e della “Cittadellarte” di Biella, inaugurata nel 1999.
Oggi è il momento dell’istituzionalizzazione dei fenomeni utopici degli anni Settanta e Ottanta. Si crea un sistema (che un tempo si rifiutava), ma voluto a propria misura. Io ho prima offerto il mio tempo con “Progetto Arte”, coinvolgendo chiunque (anche i non artisti) potesse offrire la propria creatività, e poi un luogo, l’antica filanda dove abito, per la “Cittadellarte”. Qui si propone l’incontro, il confronto e la riflessione, tramite l’organizzazione di mostre e convegni, e un laboratorio di giovani artisti che coinvolga ogni campo della creatività (moda, design, musica, e così via), in modo da abolire definitivamente le categorie dell’arte a favore dell’unità globale.
Mentre viviamo la condizione annunciata di saturazione e post-super-consumismo-consumato all’eccesso, all’arte non resta che trovare un terreno sempre più prossimo alla vita vissuta, fino al limite della non distinzione. Dopo tutto, non siamo nell’era del “Grande Fratello”?
Concluderei con un suo passo tratto da “Responsabilità dell’arte”, del 1994: “…Parlando della mia attività personale, dopo che, nel 1961, ho trasformato la pittura, cioè lo specchio metaforico, in una vera e propria superficie specchiante, le immagini dell’arte sono diventate “oggettive” e sono entrate nella vita. Il quadro è uscito dalla cornice, la statua è scesa dal piedistallo. Da allora il mio lavoro, cioè l’atto estetico, ha cominciato a penetrare negli spazi della vita stessa. Non si tratta di un esercizio multimediale destinato a concludersi in un breve lasso di tempo, ma piuttosto del lavoro su una prospettiva a 360 gradi, destinata ad un lungo sviluppo e aperta al divenire. (2000>)
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