Teste convulse in marmo, gesso o bronzo si accompagneranno a una ricca sequenza di busti liquefatti nell’onice o nel marmo rosa.
Tutti questi lavori nascono da un interrogativo posto da Samorì: “un dipinto quando muore diventa una scultura? Forse lo è sempre stato ma solo perdendo i processi d’illusione indotti dal colore e cedendo il passo ai movimenti prodotti dalla superficie esso scivola nello spazio della scultura”.
Di rilievo anche i “corpi senza ossa” ottenuti staccando la pittura dal supporto rigido e facendole assumere un volume plastico.
«Se l’ambizione della mia pittura – afferma ancora Samorì – è quella di risvegliarsi dal sonno bidimensionale, l’aspirazione della mia scultura è talvolta quella di fare tabula rasa dell’immagine scacciando i rilievi dal piano e scavando i volumi da dentro».
Emblematici di questo atteggiamento sono una testa liquefatta in marmo rosa del Portogallo e due onici parzialmente cave, che rappresentano la risposta plastica più coerente al modus operandi che Samorì sta sperimentando con la pittura negli ultimi anni. In entrambe le effigi, la forma si genera intorno all’ammanco naturale che si cristallizza in modo diverso, a seconda del tipo di pietra e di formazione spontanea della stessa. Una delle due teste è il ritratto che Daniele da Volterra fece a Michelangelo, il cui naso deturpato a seguito di una zuffa ne segnò per sempre il profilo e l’immagine.
Altrettanto emblematico è il sottotitolo, Cristalli di crisi, tratta da un’espressione usata dallo storico dell’arte tedesco Carl Einstein che fa riferimento a “qualcosa che si manifesta come anomalo nella storia dell’arte, osando promuovere l’avanzata sovversiva delle forme attraverso un assalto regressivo dell’informe”. Tale regressione caratterizza tutte le opere esposte.
“Samorì -commenta il critico Maurizio Bernardelli Curuz- mostra il lato di disgregazione dell’identità classicista italiana, del suo teso formalismo costruttivo. Il male pervade, baconianamente, i volti dei personaggi dell’artista. Una cancrena oscura, un lupus smembra e dilania non solo l’identità individuale, ma il modo tradizionale di fare pittura e scultura, che risulta proibito dalla contemporaneità. L’unico atto resta la profanazione, intesa come violenza e maledizione della divinità del passato che ci discostano dai modelli dominanti del Novecento. Restano la maledizione, il silenzio, il graffio, il vomito, la rabbia, la ribellione al nostro corpo vero e all’iconoclastia, al minimalismo, all’espressionismo astratto, alla pop art imposti dagli americani, che hanno concluso la conquista e la sottomissione dell’Europa, diffondendo l’esclusività di linguaggi propri e spostando a New York la sede di ogni approvazione dei lessici provenienti dal mondo. Samorì è da studiare attentamente e non soltanto per quelle capacità tecniche così elevate, che lo portano poi, per suprema pena, a dilaniare se stesso e i suoi modelli, in un’autofagia che mi ricorda Goya di “Saturno divora i suoi figli”. In lui stanno il rovello e la decadenza stessa dell’Europa. La colpa cosmica di Samorì è di non parlare artisticamente l’inglese con accento americano e non danzare il rap e non esporre immagini di scatolette di zuppa, ma di essere testimone di una crisi, non voluta, non scelta, di una bellezza che ci allontana dai nuovi centri di potere del Novecento.”
Nicola Samorì – La cancrena delle statue e di ogni grande grande bellezza
Il male pervade, baconianamente, i volti dei personaggi dell'artista. Una cancrena oscura, un lupus smembra e dilania non solo l'identità individuale, ma il modo tradizionale di fare pittura e scultura, che risulta proibito dalla contemporaneità. Per cui l'unico atto resta la profanazione, intesa come violenza e dialogo con la divinità del passato. Restano la maledizione, il silenzio, il graffio, il vomito, la rabbia