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di Stefania Mattioli
“Stile” intervista Mino Gabriele, membro del Comitato scientifico della mostra “Parmigianino e la pratica dell’alchimia”, aperta a Casalmaggiore (Cremona) sino al 15 maggio.
Parmigianino e la pratica dell’Alchimia: è Vasari a descrivere l’artista impegnato – nell’ultima fase della vita – a perdere tempo “in tramenare carboni, legne, bocce di vetro e altri simili bazzeccature…”. Professor Gabriele, sulla base dei recenti studi, in che misura l’alchimia ne influenzò realmente l’opera?
L’attività alchemica del Parmigianino trova eloquente riscontro solo nei tripodi della Steccata all’interno dei quali, nel fuoco, si intravedono frammenti metallici; nelle altre opere non vi sono tracce tali da giustificare un’interpretazione di questo tipo. Vede, in pittura la decodificazione dei simboli è un problema testuale, di linguaggio e soprattutto di individuazione di fonti concettuali. L’attendibilità della lettura iconografica si costruisce sulla base di studi rigorosi, di precisi riscontri filologici ed iconologici e non su dati superficialmente formali.
Ad esempio?
Il “collo lungo” della famosa Vergine del Parmigianino è una particolarità iconica di tradizione medievale che risponde a canoni connessi all’interpretazione mistico-estetica della Sposa del “Cantico dei Cantici”, e nulla ha a che vedere con “fiale” d’alchimia. La traduzione alchemica dell’opera del pittore è stata, il più delle volte, una forzatura letteraria priva di corrispondenze oggettive. Il suo interesse per l’alchimia non deve essere inteso quale elemento condizionante del suo lavoro pittorico: le due arti possono convivere senza influenzarsi reciprocamente.
Nell’opinione pubblica il concetto di alchimia è ancora legato al mestiere di maghi, fattucchiere e ciarlatani con una connotazione negativa riferita a periodi storici particolarmente oscuri e misteriosi. Pregio dell’esposizione di Casalmaggiore è far comprendere che l’alchimia, in quanto arte, ha tutt’altro significato. Ci spiega quale?
La mostra è stata impostata secondo criteri scientifici rigorosi. Tutte le opere sono state vagliate con cura, mediante un serio lavoro filologico, proprio per fare chiarezza su un argomento troppo spesso trattato con superficialità. L’alchimia è una protoscienza dedita soprattutto alla trasformazione dei metalli vili in nobili. I suoi ambiti sono molteplici e spaziano dalla metallurgia, alla chimica, alla medicina, all’astrologia con forti componenti filosofico-speculative e magiche.
Nel ’900 André Breton afferma che “la pietra filosofale è ciò che permette all’immaginazione dell’uomo di prendere una rivalsa sulle cose”. La “scienza immaginaria” – così definita da Calvesi – per gli artisti del Rinascimento è stata spesso un’utopia. Qual è il suo pensiero in proposito?
L’alchimia è un’arte operativa, fatta di lavoro ai fornelli, di pinze, crogioli, conoscenza e teorie filosofiche. Il laboratorio è una sorta di microcosmo all’interno del quale l’alchimista agisce quasi fosse il legittimo seguace dei processi naturali di trasformazione. Nulla a che vedere con la “scienza immaginaria”, l’utopia è un’altra cosa…
La segretezza ed il mistero che circondano tale pratica hanno favorito la nascita di un linguaggio in codice, enigmatico e simbolico. Quali le metafore più significative e ricorrenti usate dagli alchimisti per comunicare la loro conoscenza?
Il linguaggio alchemico è costituito da codici, alfabeti segreti, segni criptografici, ma anche da figure antropomorfe, mitologiche. Particolare curioso è il fatto che l’alchimista lavora da solo, non esiste una codificazione scolastica. Gli alchimisti hanno elaborato un percorso singolare, un sistema di referenze chiuso e questo perché non esisteva ancora una nomenclatura esatta, non si conoscevano scientificamente le componenti della materia. La segretezza è legata ad una sperimentazione con aspettative di risultato di estremo rilievo: trovare la formula dell’oro significava potere, non a caso ogni principe dell’epoca possedeva un laboratorio alchemico. Le metafore utilizzate dagli alchimisti europei medievali derivano principalmente dalla tradizione cristiana: Vergine Maria – terra madre, Immacolata concezione – lavoro in vitro, Martirio – trasmutazione della materia, resurrezione – oro. Gli alchimisti, tuttavia, consapevoli dell’importanza e dell’autorevolezza di tale patrimonio iconografico, lo impiegano con estrema attenzione: niente è usato con leggerezza, gli accostamenti sono estremamente cauti.
Molti sono i testi antichi esposti in mostra. Quale fu nel rinascimento il ruolo della parola scritta per la diffusione della pratica alchemica?
La raccolta dei testi esposti documenta la ricchezza linguistica ed iconografica della tradizione alchemica europea dal Medioevo al Seicento. Il percorso espositivo valorizza appieno la complessità dell’alchimia, che bene rappresenta l’antica sapienza fatta di una conoscenza unitaria, erudita, che rispetta le molteplici valenze cosmologiche.
/b> Probabilmente la vera alchimia della pittura consiste nella composizione della materia-colore: Cennino Cennini scrive che “il pigmento si fa per archimia lavorando per alambicco”. In che misura le nozioni alchemiche hanno influenzato l’evoluzione nella produzione del colore?
Nei codici sono davvero pochi i riferimenti a tale influenza: la produzione di pigmenti è un’arte autonoma con una tradizione ben definita alle spalle; non credo che l’alchimia l’abbia particolarmente condizionata. E’ un luogo comune da sfatare, in fondo non sono molti i pittori che si sono occupati di quest’arte.
Non è così per Domenico Beccafumi, pittore senese contemporaneo di Parmigianino.
Beccafumi è uno dei pochi artisti che, come racconta Vasari, si dedicò all’alchimia e all’arte fusoria. Le xilografie autografe esposte a Casalmaggiore, fra le opere più significative della mostra, sono uno dei rari documenti figurativi del ’500 inerenti la metallurgia. Realizzate con ogni probabilità per illustrare il “De Pirotecnia” di Vannoccio Biringucci, si distinguono – bellezza a parte – per il carattere di “unicum”. La mostra, nel suo insieme, costituisce uno spaccato esaustivo di un’arte che, criticamente poco indagata, si propone qui in tutta la complessità e la vivacità culturale che l’hanno nel tempo resa tanto affascinante quanto enigmatica.