Una vita segnata dalla passione, una passione tanto travolgente da esigere di essere “isfogata” nella disciplina più fisica e veemente dell’arte, la scultura. Le cronache ritraggono Properzia de’ Rossi (1490 circa – 1530) come un personaggio estroso, volubile e indomabile, incurante di trasgredire i dettami del codice artistico ufficiale. Il suo spirito competitivo le suggeriva scelte audaci, da sempre precluse alle donne: la pratica della scultura, appunto, con la predilezione per la “ruvidezza de’ marmi” e l’“asprezza del ferro”, nonché l’interesse per le “cose meccaniche”.
Alla sua esistenza burrascosa, afflitta da preoccupazioni finanziarie, densa di invidie e segnata da un carattere turbolento e aggressivo, Vera Fortunati e Irene Graziani hanno dedicato un volume, Properzia de’ Rossi. Una scultrice a Bologna nell’età di Carlo V (Editrice Compositori, 127 pagine, 35 euro), ricco di preziose informazioni. Ad esempio, il lettore scopre che Vasari, affascinato dalla personalità della “femmina scultora”, le riservò un elogio entusiastico: “Properzia de’ Rossi da Bologna, giovane virtuosa, non solamente nelle cose di casa, come l’altre, ma in infinite scienzie, che non che le donne, ma tutti gli uomini l’ebbero invidia”. Ed è proprio l’autore delle Vite a riferire dell’amore non corrisposto dell’artista per Antonio Galeazzo Malvasia, causa di un sentimento di rancore e frustrazione che poteva essere placato solo dalla scultura e che avrebbe portato all’esecuzione del suo capolavoro, Giuseppe e la moglie di Putifarre.
Scrive Vasari: “Ella finì, con grandissima maraviglia di tutta Bologna, un leggiadrissimo quadro (si tratta in realtà di un bassorilievo marmoreo, ndr), dove (perciocché in quel tempo la misera donna era innamoratissima d’un bel giovane, il quale pareva che poco di lei si curasse) fece la moglie del maestro di casa del Faraone, che innamoratasi di Iosep, quasi disperata del tanto pregarlo, a l’ultimo gli toglie la veste d’attorno con una donnesca grazia e più che mirabile. Fu questa opera da tutti riputata bellissima et a lei di gran soddisfazione, parendole con questa figura del Vecchio Testamento avere isfogato in parte l’ardentissima sua passione”.
Atti processuali conservati nell’Archivio criminale del capoluogo emiliano fanno peraltro trapelare una verità ben diversa: in un’incriminazione per turbato possesso presentata da un certo Francesco da Milano, Properzia figura come “concubina” di Antonio Galeazzo il quale, ipotizzano alcuni studiosi, avrebbe addirittura agevolato l’inserimento della donna nel cantiere della basilica di San Petronio.
Ciononostante, l’episodio diffuso da Vasari resta suggestivo, come dimostra l’interesse suscitato negli intellettuali dell’epoca: nel Libro dei sogni, Lomazzo interpretò il dramma amoroso della “schultora” come segno di “umore melanconico”, di un’“ardentissima fiamma” che la tormentava e ne alimentava il furore creativo. Leggendo tali testimonianze si ha l’impressione che il mondo culturale coevo avvertisse l’esigenza di far “espiare” alla donna il suo genio anticonformista, come se il talento dovesse essere controbilanciato da una passione inappagata: “Alla povera innamorata giovane, ogni cosa riuscì perfettissimamente, eccetto il suo infelicissimo amore”.
Al di là di ogni presunto scandalo biografico, ciò che resta di Properzia è il valore dell’opera. Per San Petronio, dove lavorò dal 1525 al fianco di Bernardino da Milano, Tribolo e Alfonso Lombardi, la scultrice eseguì il “leggiadrissimo quadro” citato da Vasari, Giuseppe e la moglie di Putifarre. Accantonando definitivamente l’ipotesi di considerarlo la trasposizione marmorea dell’infelice esperienza amorosa vissuta in prima persona, possiamo credere che l’immedesimazione dell’artista nell’eroina biblica rappresenti un tentativo tutto femminile di interpretare le Sacre Scritture, trascrivendo l’episodio con un linguaggio inedito, frutto della sintesi tra le istanze della Maniera romana e la meticolosa attenzione al dato naturalistico propria della tradizione raffaellesca.
Entro uno spazio angusto ma ben calibrato e simmetrico, la moglie di Putifarre assume il ruolo di assoluta protagonista, mentre Giuseppe viene relegato al margine sinistro, in posizione defilata. Con una presa possente, di stampo michelangiolesco, l’effigiata si protende verso l’amato e ne afferra la veste: lo sguardo risoluto e le braccia muscolose tradiscono una profonda consapevolezza di sé, la volontà di decidere in modo autonomo della propria esistenza.
Il suo fisico robusto stride con quello più esile, palesemente raffaellesco, di Giuseppe, ma non per questo perde in termini di sensualità: l’impalpabile camicia lascia scoperto con istintiva naturalezza il seno, conferendo alla composizione una nota erotica tutt’altro che implicita. Voluttà, intraprendenza ed impeto convivono nel suo animo, così come nell’animo di Properzia, e trovano manifestazione visibile nel corpo androgino, eletto a ricettacolo di un’indole impulsiva, vibrante e tormentata. Benché Giuseppe e la moglie di Putifarre sia l’unica opera certa di Properzia oggi conosciuta, molti studiosi sono concordi nell’ascrivere alla scultrice anche la formella La moglie di Putifarre accusa Giuseppe (forse su disegno di Alfonso Lombardi) e lo Stemma della famiglia Grassi.
Un’attribuzione, quest’ultima, probabilmente influenzata dalla testimonianza di Vasari, che parlando di Properzia aveva accennato alla produzione di “noccioli di pesche, i quali sì bene e con tanta pazienza lavorò, che fu cosa singolare e meravigliosa il vederli”. Nel telaio in filigrana d’argento, intagliato a forma di aquila bicipite – l’insegna della famiglia senatoria bolognese -, sono infatti incastonati undici noccioli con effigi (sia sul recto che sul verso) di Apostoli e Sante. Il restauro non ha consentito di identificare la specie di frutti da cui derivano (forse albicocche o susine, piuttosto che pesche), ma all’interno di uno di essi è stato ritrovato il seme, conferma della loro natura vegetale.
Properzia de’ Rossi, grande scultrice del Cinquecento e “pubblica concubina”
Fu turbolenta protagonista di clamorosi scandali nella Bologna del ’500. Nell’opera citata da Vasari trasformò la biblica moglie di Putifarre in una donna impegnata a rivendicare il diritto alla libera espressione dei propri sentimenti