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Un corpo languido, voluttuoso, morbido e procace: più che una divinità, la Venere che scherza con due colombe di Hayez è una cortigiana dalle voglie inconfessabili e convulse, un’ammaliatrice dalle cui carni nivee, vestite di solo colore, profonde un effluvio di indomita malizia, sobillatore di pensieri impudichi.
Ad impersonare la dea, sotto un impalpabile velo iconografico che non può occultarne l’identità, la ballerina Carlotta Chabert, amante del conte trentino Girolamo Malfatti, committente del dipinto.
Alla sua comparsa all’esposizione di Brera del 1830, la tela suscitò scandalo e fomentò una veemente diatriba tra il partito dei romantici, patrocinatori dell’opera, e quello dei classicisti, indignati dall’esibizione sfacciata, e per giunta in primo piano, delle conturbanti forme della modella, nonché da un’aderenza al vero che trascurava le esigenze del decoro e delle auree proporzioni. I glutei abbondanti, quasi iperbolici, e le cosce tornite risultavano eccessivi, disarmonici, caricaturali, volutamente volgari.
Fu lo stesso Hayez, nelle Memorie, a sconfessare le critiche, asserendo che se la figura “per forma non aveva quella nobiltà voluta nella regina della bellezza, causa ne fu il modello, che quantunque non fosse propriamente difettoso, pure se io avessi cercato di migliorarlo avrei riescito a maggior mia soddisfazione; ma il rispetto che io ho del vero mi tolse l’ardire di migliorarlo dietro lo studio ch’io aveva preventivamente fatto delle cose greche: con tutto ciò non aveva pensato di meritarmi una critica così acerba che mi scagliò contro, qualificando la mia Venere come ‘la più schifosa del volgo’”.
Insomma, la colpa di tanta scabrosità andava ascritta alla straordinaria opulenza delle forme di Carlotta, e non all’artista, che si era limitato ad una trasposizione del vero. In ogni caso, restano lampanti le affinità del dipinto con la Venere Italica di Canova, celebrata da Foscolo quale icastica incarnazione dell’amore fisico: “Io dunque – racconta il poeta in una lettera a Sigismondo Trechi – ho visitata, e rivisitata, e amoreggiata, e baciata e (ma che nessuno il risappia) ho anche una volta carezzata questa Venere”, creatura in cui convergono “quelle grazie che spirano un non so che di terreno, ma che muovono più facilmente il cuore”.
Dunque, in consapevole contrasto con il classicismo di inizio Ottocento, Hayez va in direzione di un audace realismo. Tuttavia, pur all’interno di un genere coltivato negli stessi anni in Italia, e con successo, da altri pittori, egli giunge a trascendere gli ultimi lembi di convenzionalità sin nei dettagli, come si evince dall’evanescente rincorrersi delle ombre, dal filo rosso che lega, quasi invisibile, i due uccelli, e dal raffinato gioco di bianchi – della pelle della donna e del panno adagiato sulla balaustra -, così allusivi da sembrare, ancor oggi, irresistibilmente insolenti.
"Quella Venere è volgare, ha il sedere grosso". Hayez: "Ho copiato le forme della ballerina Carlotta"
Nel 1830, Francesco Hayez mette in mostra a Brera una Venere ignuda dalle forme straripanti. Ed è subito scandalo. Anche perché l’opera è in realtà il ritratto assolutamente fedele della celebre ballerina