Salomone incensa gli idoli. Donato agli Uffizi il dipinto di Bartolomeo Silvestrini, fiorentino del ‘600

Probabilmente commissionata dalla famiglia Pucci, l’opera raffigura l’episodio biblico in cui si narra come l’anziano sovrano, sotto l’influenza delle sue numerose mogli e concubine, si trovò a idolatrare gli dei di ciascuna di loro

Bartolomeo Salvestrini (Castello Firenze 1599-1633), Salomone incensa gli idoli, Olio su tela, cm 188,5×211,5, in basso a destra siglato “BS” e datato “1626”

Entra nella collezione della Galleria degli Uffizi un’importante dipinto del Seicento: Salomone incensa gli idoli, realizzato dal pittore fiorentino Bartolomeo Salvestrini.
L’opera, donata al museo da Fabrizio e Francesco Guidi Bruscoli, è dedicata alla memoria di Daniela Salvadori Guidi Bruscoli, in occasione degli ottanta anni dalla sua nascita. Il soggetto è l’episodio biblico in cui si narra come Salomone da vecchio si circondò di uno stuolo di mogli straniere: ben settecento principesse e trecento concubine, che lo indussero ad adorare le diverse divinità di ciascuna, per le quali costruì templi e offrì sacrifici. Tale esercizio di idolatria, e il conseguente allontanamento dal Signore, portarono a Salomone una dura punizione divina: lo smembramento del suo regno in due parti. Così si spiega l’iscrizione apposta alla tela: “Mulieres apostatare faciunt sapientes” (“Le donne fanno allontanare dalla retta via perfino i sapienti”), per giunta siglata e datata 1626 dal pittore, Bartolomeo Salvestrini.
Bartolomeo Salvestrini (Castello Firenze 1599-1633), Salomone incensa gli idoli, Olio su tela, cm 188,5×211,5, in basso a destra siglato “BS” e datato “1626”

Fiorentino, si formò come artista alla bottega del Passignano e di Matteo Rosselli e fu poi dal 1621 collaboratore di Giovanni Bilivert, che lo ritenne “il migliore di tutti i suoi allievi”, stando alla testimonianza del biografo Filippo Baldinucci. L’opera spicca nella produzione del Salvestrini per un’impostazione teatrale e una ricchezza compositiva che ricordano i suoi maestri, Francesco Rosselli e in particolare Giovanni Bilivert. L’impronta di quest’ultimo è particolarmente ravvisabile nella morbidezza del tocco pittorico e nel gusto per la descrizione dei costumi sontuosi e degli oggetti e dei tessuti preziosi, come la cappa di ermellino di Salomone, che inginocchiato incensa con un turibolo gli idoli, collocati a destra davanti a una tenda di seta lucente color porpora. A Bilivert, figlio di orafo, rimanda la resa attenta del turibolo finemente lavorato, dei gioielli delle mogli, e l’idea dello straordinario brano di natura morta in primo piano, in cui i simboli della regalità – l’enorme turbante coronato su cui si appoggia lo scettro – sono abbandonati a terra, vicino all’aspersorio ricavato da una conchiglia: un oggetto senza dubbio degno delle manifatture granducali. La sensuale figura della giovane moglie che solleva il manto di Salomone sembra derivare da modelli statuari, che forse Bartolomeo aveva visto e studiato grazie al fratello Cosimo Salvestrini, affermato scultore della Corte Medicea, artefice di statue (Amore che ride) per il Giardino di Boboli e di stucchi negli appartamenti di Palazzo Pitti decorati da Pietro da Cortona.
Considerata la breve vita di Bartolomeo Salvestrini, morto di peste nel 1633 ad appena 34 anni, e la rarità dei suoi dipinti nelle collezioni pubbliche, questa “pittura da stanza” costituisce un’importantissima acquisizione per le Gallerie degli Uffizi, aggiungendosi ad alcuni disegni dell’artista nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe e a due suoi dipinti: l’Allegoria della Pittura intenta a dipingere un paesaggio, opera datata 1624 che gli valse la nomina ad Accademico del Disegno, e il rame con David con la testa di Golia della Galleria Palatina. Il Salomone che incensa gli idoli fu con tutta probabilità commissionato dalla famiglia Pucci: una tela con “una storia di Salomone”, è infatti citata in un documento oggi all’Archivio di Stato (Carte Dei, Famiglia Pucci, XXXVIII, c. 28r.) nel quale l’artista risulta pagato dal balì Giulio Pucci (1590 -1672), mecenate delle arti insieme al fratello minore Alessandro ( 1603-1650) e committenti dei pittori Francesco Curradi, Matteo Rosselli, Orazio Fidani e il Giovanni Bilivert, maestro del Salvestrini. Sempre per i Pucci, Bartolomeo aveva eseguito anche una Pietà, non rintracciata.

La carriera di pittore del Salvestrini fu breve ma intensa: con Matteo Rosselli collaborò agli affreschi nelle residenze medicee del Casino di San Marco e della villa di Poggio Imperiale, dove dipinse le lunette di Deborah e di Esther nella Sala dell’Udienza; per il cardinale Carlo de’ Medici realizzò dipinti da stanza raffiguranti Salmace ed Ermafrodito, e Rebecca che veste Giacobbe. Tra il 1625 e il ‘30 dipinse alcune pale d’altare per le chiese del territorio fiorentino, tra le quali ricordiamo l’Annunciazione per la chiesa di Colonnata a Sesto Fiorentino, la Flagellazione per quella di Santa Lucia alla Castellina a Sesto (commissionata nel 1626) e Santa Verdiana che medita sul Crocifisso (1629) ora a Santa Verdiana a Castelfiorentino.

Il direttore Eike Schmidt: “Fabrizio Guidi Bruscoli insieme al figlio Francesco hanno aggiunto un dipinto sublime alle collezioni degli Uffizi, in memoria di Daniela Guidi Bruscoli: un atto di generosità che unisce l’amore per la moglie e madre a quello per Firenze e per il museo dove si raccolgono i tesori dei Medici. Nell’opera si condensano i contenuti più seducenti della splendida stagione del Seicento fiorentino: la sensualità, l’opulenza delle materie, l’eleganza dei dettagli memore delle raffinatezze manieriste, i richiami alla scultura e all’oreficeria, e una straordinaria ricchezza di spunti che diventa un inno all’unità delle arti”.

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Maurizio Bernardelli Curuz
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