Tiziano fa lo sconto

La vera storia dei perduti dipinti eseguiti per la chiesa di Pieve di Cadore. Ai suoi concittadini il grande artista fece un prezzo speciale. E affidò l’opera ai collaboratori


di Lionello Puppi

tizianoautoritratto[A] dispetto del gelo e dei disagi che l’autunno imminente stava per portare, sul finire del settembre del 1565, Tiziano s’era condotto, attraverso le gole del Cadore, alla sua Pieve. La vertenza per la restituzione del prestito che aveva accordato a quella Magnifica Comunità, doveva essere stata finalmente conclusa, sebbene fosse stata estenuante:
il 24 maggio 1561, il pittore, dopo aver concesso una dilazione del pagamento prendendo atto delle difficoltà momentanee di cassa dei concittadini, era stato costretto ad un sollecito, che dovrà reiterare nell’anno successivo e, per premere, era ricorso ai buoni uffici del cugino Vecello Vecelli – che ringrazierà con un dono di quadri -, scrivendogli sin dal 21 aprile e dall’agosto al 24 maggio 1562.

S’aggiunga, poi, che codesto “pasticciaccio brutto” aveva intersecato le trattative, con la stessa Comunità, per ottenere la concessione di un “luogo”, che quella possedeva presso San Francesco della Vigna a Venezia, da adibire a deposito del “legname” che Tiziano insieme al figlio Orazio trafficava con la Capitale, ed era stata complicata dalla raccomandazione che, a favore dell’amico Tommaso Contarini, “degnissimo Procurator” – il quale aveva fatto “tagliar maggior quantità ‘di legna da fuoco’ di quello che gli era stato permesso” dal Comune di Vallesella -, era stato costretto ad avanzare proprio alla Magnifica Comunità (il dossier epistolare documentante un simile tormentone, peraltro reso noto da Celso Fabbro, si conserva nella Biblioteca-Archivio di Pieve).

S’aggiunga ancora che, nella stessa congiuntura, il Vecellio era pressato dalle sollecitazioni a portare a termine le più svariate commissioni, del cardinal Ercole Gonzaga, di Guidobaldo II, duca di Urbino, e, su tutti, di Filippo II; e, poco prima d’incamminarsi verso il Cadore, s’era impegnato – siamo alla data del 20 agosto 1565 – a eseguir “le piture” che, per la civica Loggia, gli avevano chiesto i Deputati di Brescia. Né quel viaggio, perdipiù in quella stagione, veniva intrapreso per trovar riposo alfine nella pace dei monti: questioni, anche lassù, restavano aperte, pur sempre con la Comunità, e non solo a proposito del commercio del legname che era tra le fonti solide e sicure dei redditi: si trattava anche di garantirsi alleanze fedeli all’interno del governo di essa.


E non per caso, allora, il documento che ci attesta il viaggio – un rogito del notaio Giovanni Genova dell’1 ottobre 1565 – è l’atto con cui Tiziano, in virtù delle prerogative concessegli dal diploma di Carlo V, creava notaio il congiunto Fausto Vecellio. Ma i nomi dei testimoni convocati ci dicono financo qualcosa di più; e di qualche non trascurabile momento. Si tratta, infatti, accanto al giurista locale Matteo Palatini, di Valerio Zuccato, di Manuel Amberger e di Marco Vecellio: vale a dire dell’équipe, che proprio in codesta circostanza risulta certificata per la prima volta (e affiancherà Tiziano, integrata dal figlio Orazio, sino alla sua morte), dei collaboratori stabili del maestro o, insomma e dove si voglia altrimenti dire, degli esponenti della sua bottega. Concludere che, oltre alle incombenze che si sono indicate, la trasferta cadorina comportasse anche un impiego pittorico, è ipotesi che trova pieno suffragio nei documenti.

Siamo al cospetto, invero, della delibera con cui, il 18 giugno 1566, il “marico” e gli amministratori della chiesa arcidiaconale di Pieve – dedicata a Santa Maria Nascente – decidono di far dipingere la “testudo idest cuba” (il presbiterio e il coro), offrendone l’incarico a Tiziano e, contestualmente, impegnano il pittore con una lettera che fa riferimento ai “modi e patti che si ragionò con (lui stesso) mentre lo si ritrovò qui in Cadore”: dunque, e per l’appunto, nell’autunno dell’anno precedente. Inoltre, se i “patti” comportano l’accettazione, da parte del maestro, e quantunque “cuius opus ipsum valeat aureis quingentis et amplius”, di un compenso di soli “aureos ducentos” – “solvendos tamen in tot lignis” (laddove, una volta di più, spicca l’attenzione del Vecellio per il traffico mercantile del legname) -, appare sotteso che l’esecuzione sarebbe stata faccenda della bottega, la quale avrebbe lavorato sui cartoni predisposti da Tiziano a Venezia in obbedienza ad un programma iconografico mariano, visto che esplicitamente gli si domanda di “mandar de qui i detti pittori”.

Che sono precisamente due dei personaggi che abbiamo incontrato nel ruolo di testimoni al rogito dell’1 ottobre 1565. A riprova – e mentre non stupisce che il Vecellio rinunzi a farsi carico della responsabilità materiale del lavoro d’affresco (da qualche decennio non lo praticava più, e ciò lo aveva sottratto ai grandi cantieri dell’edilizia pubblica e privata, aperti nella Capitale, nei centri urbani e nelle campagne bonificate, a partire dagli anni Quaranta) -, e nel momento in cui prendiamo atto che, il 21 marzo 1567, viene predisposto dai committenti l’invio a Tiziano di cinquanta carri di legna, attinta “in nemore Vallinensi”, “pro portione mercedis operis iam inchoati”, registriamo la presenza cadorina, nel novembre del 1567 e nel febbraio del 1568, di Emanuel Amberger e di Marco Vecellio, che, a questo punto, possiamo ritenere, all’interno della bottega, gli esecutori designati a realizzare l’opera: opera che, nella primavera del 1568, allorché entrambi non sono più registrati a Pieve, dobbiamo considerare terminata, ancorché non siano emersi – sinora – documenti che ci informino attorno alla sua inaugurazione, che pur si può immaginare essere stata insieme solenne e fastosa.

L’infausta demolizione indiscriminata della vecchia chiesa arcidiaconale tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento ci nega l’experiri concreto del ciclo d’affreschi, di cui solo disponiamo – introvabili anche le riproduzioni ad acquerello che ne trasse, poco prima che il piccone lo sbriciolasse, il pittore bellunese Agostino Ocofer – delle descrizioni consegnateci dal sacerdote Giovanni Antonio Barnabò di Valle nel 1733, da Francesco Giuseppe Sampieri nella seconda metà del secolo XVIII e da Taddeo Jacobi nel 1810.

Sappiamo, pertanto, che l’omaggio mariano dispiegava, sulla volta del coro, il Padreterno nell’atto di ricevere la Vergine in cielo tra un volo d’angeli e alla presenza dei quattro evangelisti e, sulle pareti di esso, l’Annunciazione e la Natività. Lo suggellavano, all’interno dell’arco d’accesso, otto busti di Profeti e, sulla fronte dell’arco, le immagini della Vergine dolorosa e di san Giovanni Evangelista. Nessuna allusione, dunque, a memorie di sé e del proprio destino gentilizio, da parte di Tiziano, a smentita del topos onde l’impresa d’affresco sarebbe da porre in rapporto al proposito di trovar sepoltura in quello spazio centrale del tempio tramandata dal cosiddetto Anonimo del Tizianello (1622) al Ridolfi e raccolta dai Crowe, Cavalcaselle: se mai il Vecellio un simile intento possa aver vagheggiato (ed è probabile), sin dal 1380 la sua famiglia disponeva dello iuspatronato della terza cappella a sinistra dall’ingresso (ovviamente, del tempio demolito), intitolata a san Tiziano e con tomba riservata: e solo là potrebbe aver meditato di trovar il riposo che, invece, gli riserverà la cappella del Cristo nella chiesa francescana dei Frari a Venezia. E, di fatto, il programma iconografico degli affreschi di Pieve rimandava, al tempo stesso, alla titolare del tempio e alla protettrice celeste di quella comunità: e ne impalcava – il che, sinora, mai è stato notato – un voto che era per inverarsi dieci anni prima della salita di Tiziano a Pieve – dalla quale abbiamo preso qui avvio -, pur coinvolgendo, sin da allora, l’impegno del maestro.


Tra le carte innumerevoli del Nachlass di Celso Fabbro, depositate oggi presso la Magnifica Comunità di Cadore a Pieve, incontriamo la ricopiatura di un rogito del notaio Toma Tito Vecellio (primo cugino di Tiziano, sia detto tra parentesi, e a lui dilettissimo), redatto “in Pieve di Cadore et in lo palazzo di essa Pieve” il 26 novembre 1556. L’irreperibilità dell’atto originale nulla toglie al valore della trascrizione che fortunatamente ce lo confida: e si tratta, veramente, di pregio riconoscibile nella più puntuale messa a fuoco, che consente, della vicenda degli affreschi nell’arcidiaconale di Pieve. Vediamo.

Attore del rogito è un tal Zaneto de Tomasinis “della Corrizzolla del Vescovado de Padoa” nella veste di erede designato di un “Zuane quondam ser Iacomo de Pisinis de Calalzo”, il quale, in forza del testamento che lo beneficiava (ma di cui, purtroppo, non ci sono forniti estremi di data e di notaio), era tenuto “a far depenzer la cubba et choro della giesia de Madona Santa Maria situata in detta Pieve (…) per mano del magnifico misier Titian Vecellio pittor eccellentissimo”.
All’uopo, Zaneto già aveva provveduto a consegnare un anticipo di quaranta ducati ai “sindici della Luminaria di detta giesia, Thomas quondam maistro Nardo del Menego e sier Antonio Vecellio quondam Piero Vecellio”, ma, con l’atto notarile in questione, ne chiede la restituzione, impegnandosi a coprir le spese dell’impresa pittorica investendovi il credito “che lui ha con lo magnifico misier Camillo Trivisan avvocato eccellentissimo in Venetia”, ammontante a seicento ducati.
A tal riguardo, si obbliga altresì a recarsi, con un messo dei “sindici”, presso il Trevisan il quale, dopo aver interpellato Tiziano sull’entità dell’onorario preteso per l’esecuzione dell’opera – la cui invenzione viene lasciata alla libera scelta del pittore, purché “faciat hoc ex proprio et particulari cultu quem habet erga Dominam Mariam”-, avrebbe tratto dal suo debito verso Zaneto, e dato al Vecellio “quel tanto sarà tra loro ut supra concluso a far detta opera”.

Ignoriamo il seguito immediato della faccenda, e le ragioni del suo apparente finir nel nulla. Forse, l’indisponibilità di Tiziano, che doveva esser ancor profondamente turbato e provato dalla notizia dell’abdicazione di Carlo V e della morte improvvisa per “una cannonata di apoplessia” del fraterno amico Pietro Aretino: laddove, però, che l’incontro con il Trevisan sia avvenuto, difficilmente si può escludere; e, ciò, permette di aggiungere al novero dei referenti veneziani del maestro una figura di intellettuale di immenso interesse (la sua appartenenza alla problematica Accademia della Fama; il suo legame col giovanissimo Giovanni Mario Verdizzotti, che sostituirà l’Aretino accanto a Tiziano: per non dir d’altro), invitando ad opportuni approfondimenti, che non potranno non comprendere qualche cogente domanda intorno al perchè di così coinvolgenti rapporti (un debito di seicento ducati!) tra una figura dello stampo di Camillo Trevisan e l’universo del Cadore.

Frattanto, malgrado la mancanza – al momento attuale – di notizie sulla sorte della cospicua somma di denaro messa a disposizione dallo sfuggente Zaneto, una cosa resta: che la decorazione pittorica del coro dell’arcidiaconale di Pieve fu pensata sin dalla metà degli anni Cinquanta e se, sin da subito, viene identificato il suo interprete in Tiziano, scaturì da un intento corale di devozione verso la santa protettrice della comunità di Pieve, e non dalla volontà d’autocelebrazione personale e familiare del pittore.
Come ognuno sa, e come addietro s’è constatato, l’opera d’affresco condotta – si ripete -, sui cartoni predisposti da Tiziano in Venezia (e ciò la dice lunga sui complessi e problematici rapporti interni alla bottega), da Marco Vecellio e da Emanuel Amberger, il discepolo venuto da Augusta – che nella casa cadoriana del maestro avranno preso alloggio in quel biennio 1566-1568 -, non esiste più. Se l’atto irresponsabile della sua distruzione viene progettato dall’architetto Angelo Schiavi – che ne designa l’esecutore nel suo allievo Bortolo Bianchi di Cibiana il 22 aprile 1809, e sarà perpetrato quattro anni dopo -, la condanna era stata pronunciata sin dal 26 maggio 1754, in virtù della lettera del patriarca Dolfin che, con giubilo, autorizzava l’integrale “rifabrica” della “veneranda” chiesa “matrice” di Pieve di Cadore.

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