di Giovanna Galli
“Stile” ha intervistato Enrico Crispolti, curatore, con la collaborazione di Marco Tonelli, della mostra “Dal Futurismo all’Astrattismo. Un percorso d’Avanguardia nell’arte italiana del primo Novecento”, aperta al Museo del Corso di Roma sino al 7 luglio.
Con la grande mostra sul Futurismo di Palazzo delle Esposizioni da lei curata lo scorso anno è stato ricostruito con dovizia di particolari il “terreno” trentennale in cui hanno posto le radici le ipotesi di quella che è comunemente detta “arte astratta”, ovvero quella sostanzialmente non-figurativa. La mostra attuale intende proprio ricostruire il percorso d’avanguardia che ha attraversato l’arte del primo Novecento in Italia in questa direzione. Vuole spiegare ai nostri lettori come è stata strutturata?
L’intenzione della mostra è di proporre – esemplificandolo complessivamente per la prima volta con tale ampiezza – il percorso delle ricerche d’intenzione non-figurativa sviluppatesi in Italia lungo la prima metà del XX secolo; considerandolo in tutta l’articolazione complessa dei suoi numerosi momenti, che non risultano necessariamente successivi ma che si confrontano anche in situazioni di parallelismo. Di momenti diversamente caratterizzati della ricerca la mostra ne individua esattamente undici, lungo circa mezzo secolo di vicende. Ed è il percorso pausato appunto attraverso l’evidenziazione di questi undici momenti che costituisce la struttura della mostra, che ho intitolata “Dal Futurismo all’Astrattismo” proprio per riassumere due termini complessivamente fondamentali di tale vicenda. Di tutta la complessità della quale, tuttavia, la mostra stessa si propone di offrire sostanzialmente non tanto una mappa onnicomprensiva quanto una intenzionale campionatura. Forse avrei potuto dire più propriamente “Dal Futurismo all’Informale”, indicando dunque i termini di partenza e di arrivo di un percorso che in effetti si sviluppa originalmente (seppure con non altrettante fondanti innovazioni) anche lungo la seconda metà del medesimo XX secolo. Tuttavia, per quanto indubbiamente piuttosto generico, il termine “Astrattismo” permette in certa misura di indicare complessivamente – attraverso la sua stessa interna varietà di posizioni – una vicenda articolata che in qualche misura si è venuta configurando in situazioni fra di loro assai differenziate, sì muovendo ma anche evolutivamente distaccandosi dal Futurismo, peraltro altro termine comprensivo di ben quattro differenziati momenti della ricerca. Quattro degli undici in cui si snoda appunto il percorso della mostra, che peraltro risulta indubbiamente assai chiaro, e in certa misura parlante, come del resto cerco sempre di fare nei miei impegni di comunicazione del discorso storico-critico attraverso occasioni espositive, in questo caso agevolato anche dall’intelligentemente partecipe allestimento dovuto all’architetto Valeriani. Ma proprio come accade nel caso del Futurismo, il cui cappello appunto quattro ne comprende, in effetti gli undici diversamente caratterizzati momenti della ricerca si concentrano nelle tre grandi stagioni in cui si riassumono le vicende documentate attraverso la mostra. La prima delle quali è rappresentata dal Futurismo nei suoi diversi momenti, fra primi e secondi anni Dieci e anni Trenta e primi Quaranta; la seconda dal Concretismo, fra anni Trenta e ripresa nei secondi Quaranta e lungo i Cinquanta; mentre la terza stagione indubbiamente è costituita dalla grande vicenda dell’Informale (che tuttavia non fu – come ben si sa – soltanto non-figurativo, come del resto neppure il Futurismo fu soltanto non-figurativo).Ed è una stagione di contrapposizione a prospettive d’astrazione geometrica che finisce per sormontare e in certa misura assorbire (come sua “destra” temperata) altre diversioni non-figurative antigeometriche, come nel caso della fantasia formalistica di “Forma”, o dell’allusività immaginativa sensibile dell’“Astratto-concreto” leoventuriano.
All’interno di una definizione “allargata” di Astrattismo si fa riferimento a tutte le diverse espressioni artistiche svincolate dal figurativo. Vuole specificare per i nostri lettori quali siano le caratteristiche di massima di queste varie espressioni?
Certamente sotto l’etichetta di “Astrattismo” si intendono, molto sommariamente, espressioni diverse che in differente misura, nella costituzione di una proposizione d’immagine, sfuggono il ricorso alla nozione di figura. Personalmente preferisco parlare di “Non-figurativo” piuttosto che di “Astrattismo”: infatti, “astrazione” sembra presupporre un processo di progressiva riduzione dei margini dell’evidenza figurativa verso un’essenzialità appunto “astratta”. Se i primi “astrattisti” (storici) si sono detti appunto tali, in realtà già negli anni Venti si parlava di “realismo” di proposizioni radicalmente non-figurative e soprattutto di “concreto” del non-figurativo: l’“arte concreta”, di cui parla nel 1930 quello che era stato un campione del “Neoplasticismo” olandese, Van Doesburg. Seppure ovviamente meno popolare (e perciò non praticabile nel titolo di una mostra destinata al largo pubblico), “Non-figurativo” infatti è certamente termine più comprensivo che accomuna, in Italia, situazioni fra di loro diverse, dalle molteplici tensioni futuriste all’astrazione, all’integralismo “concretista”, fino al versante non-figurativo informale, sia segno, sia gesto, sia materismo; ma anche posizioni di formalismo immaginativo, come quelle appunto dell’“Astratto-concreto” o quelle rappresentate dagli sviluppi di “Forma”. A suo tempo Michel Seuphor ha parlato di “stile” e di “grido”, di “astrazione fredda” e di “astrazione calda”. In realtà le due opposte polarità non riassumono la molteplicità degli svolgimenti non-figurativi, l’estesa fenomenologia in cui insomma si dipana anche in Italia la complessa vicenda dell’“arte astratta”. E tuttavia è indubbio che in tale vicenda, lungo l’intero XX secolo, sulla scena dapprima soprattutto europea poi mondiale, si possano storicamente individuare due grandi versanti. Uno di carattere empatico, espressionista, emotivo, fondato dalle proposizioni di Kandinskij e di Kupka, su premesse espressioniste e “fauves” e su precedenti secessionisti (viennesi e monachesi): dall’“Espressionismo astratto” kandinskijano nei primi anni Dieci all’“Espressionismo astratto” dell’“Action-painting” nordamericana negli anni Cinquanta, all’“Astrazione-lirica” di Wols e di Hartung. E uno invece di carattere strutturale, costruttivo, fondato dalle proposizioni di Malevic e del Suprematismo, di Lisitskij e del Costruttivismo, in Russia, e di Mondrian, Van Doesburg e il “Neoplasticismo” in Olanda, negli anni Dieci, su precedenti prossimi del Cubismo “sintetico”, e su precedenti remoti di proposizioni cézanniane: dall’“Arte concreta” negli anni Trenta fino alle più recenti ricorrenti formulazioni di astrazione costruttiva. In questo senso la vicenda italiana, il cui percorso la mostra ricostruisce analiticamente nei suoi momenti – pur attraverso soltanto una campionatura di esponenti più rilevanti e un’antologica di opere maggiormente significative relativamente a ciascun momento -, si colloca non marginalmente in uno scenario internazionale, ove sono proprio la stagione del Futurismo e quella dell’Informale a riuscire maggiormente vincenti in un confronto a tutto campo, a scapito di una indubbiamente minore originalità complessiva delle proposizioni “concretiste”.
Trattandosi di un evento particolarmente ricco per numero di opere e di autori proposti – e, per questo motivo, di un’occasione particolarmente preziosa per chi voglia comprendere i vari sviluppi dell’arte astratta -, possiamo provare a tracciare un’analisi sintetica delle varie sezioni in cui è stato suddiviso il percorso espositivo, per cercare di comprendere quali sono stati gli snodi fondamentali che hanno caratterizzato l’alternarsi dei vari movimenti e correnti?
Come ho accennato prima, sono tre le grandi e diversamente caratterizzate stagioni della ricerca che configurano fondamentalmente il percorso della mostra romana: il Futurismo, il Concretismo, l’Informale. E tuttavia il percorso si snoda appunto attraverso una ricognizione analitica che individua momenti diversi entro tali grandi stagioni. E così nell’ambito del Futurismo, anche sotto il profilo delle enunciazioni a favore d’una intenzione di tensione non-figurativa, e proprio seguendo le distinzioni ormai ben esplicitamente configurabili (e da ultimo ribadite nella grande mostra dedicata al Futurismo in tutti i suoi tempi ed aspetti in Palazzo delle Esposizioni a Roma fra estate e autunno scorsi), è agevole distinguere formulazioni pertinenti il momento “analitico”, e poi quello “sintetico”, e poi il momento “meccanico”, quindi quello “cosmico”, della ricerca, fra anni Dieci e primi Quaranta. Il momento “analitico” si è sviluppato i primi anni Dieci, in particolare fra le formulazioni più spinte in senso non-figurativo di Boccioni e di Severini nel 1913, le più articolate proposizioni di Balla sia attraverso il processo evolutivo che corre dal tema della “velocità d’automobile” a quello della “velocità astratta” e del “vortice” (1913-14), sia nel radicalismo non-figurativo (senza agevoli eguali sulla scena europea) delle “compenetrazioni iridescenti” (1912-1914); ma vi affluiscono in realtà anche originali prove sia di Romani sia di Dudreville. Nei secondi anni Dieci, il momento “sintetico” comporta una più esplicita ed estesa consapevolezza d’astrazione: nel marzo 1915 Balla e Depero firmano come “astrattisti futuristi” il loro manifesto “Ricostruzione futurista dell’universo”; e astrattista si riconosce allora anche Prampolini. Esattamente nei termini delle possibilità offerte dall’analogia plastica e cromatica. Anche Sironi brevemente partecipa di questa congiuntura; anche Evola, e anche Dottori. Mentre per proprio conto giunge ad esiti di sintesi formale non-figurativa Magnelli. All’inizio degli anni Venti, quando per proprio conto – dialogando con i dadaisti – Evola teorizza spiritualisticamente l’“arte astratta”, il momento “meccanico” della ricerca pittorica e plastica futurista approfondisce le possibilità dell’analogismo plastico e cromatico, ma dandogli un senso strutturale nuovo, stereometrico, nel senso della lucidità costruttiva suggerita dalla macchina. Lo esprimono anche nei termini del manifesto “Arte meccanica” Prampolini, Pannaggi, Paladini, ma ne partecipano a loro modo sia Balla che Depero. L’“arte meccanica” futurista non passa necessariamente per soluzioni non-figurative, e tuttavia le stimola, come nel caso delle proposizioni di Fillia e soprattutto di Diulgheroff, negli anni Venti. Infine negli anni Trenta il momento “cosmico” (indubbiamente l’aspetto maggiormente propositivo e creativo della interpretazione del nuovo tema futurista della visione aerea), in particolare nelle formulazioni di Prampolini, Fillia, Oriani, Diulgheroff, ma anche occasionalmente in formulazioni di Dottori, esprime una ulteriore tensione non-figurativa nei misteri della spazialità cosmica. E’ appunto complessivamente la vicenda riassunta nella grande stagione futurista, la prima delle tre attraverso le quali passano i diversi momenti di ricerca che caratterizzano il percorso ricostruito dalla mostra. E se il momento “analitico” della ricerca futurista dialoga con le formulazioni del Cubismo “analitico”, a sua volta il momento “sintetico” dialoga con il Cubismo “sintetico” ma anche con le prime formulazioni d’una astrazione “costruttiva” dal Suprematismo e Costruttivismo russi al Neoplasticismo olandese, ma pure ad un sincretismo astratto di cui è partecipe anche Dada. E il momento “meccanico” dialoga a sua volta con il Purismo, e quello “cosmico” con l’area del Surrealismo. Tuttavia, ciò che caratterizza la tendenza all’astrazione in questa prima grande stagione delle tre che connotano in modo saliente il percorso della mostra è la particolarità di una pur nel tempo diversa ricorrenza del riferimento al confronto emotivo con la realtà, quale genesi dell’immagine: dalla realtà “metropolitana” dei primi anni Dieci fino alla realtà “cosmica” degli anni Trenta e primi Quaranta. Perciò sia Boccioni che Prampolini nel 1914 possono polemizzare con l’“astrazione” di Kandinskij, rispondente soltanto ad una “necessità interiore”, analogamente alla formulazione d’ispirazione musicale. Perciò Fillia negli anni Trenta polemizza con la successiva tradizione d’astrazione “costruttiva”, da Mondrian a Vordemberg-Gildewart, vale a dire dall’ambito del Neoplasticismo a quello del Concretismo, contestandone la posizione ritenuta “aprioristica”. In questo senso la seconda grande stagione del percorso della mostra, quella appunto del Concretismo, rappresenta una situazione nuova ed evolutivamente oppositoria rispetto al Futurismo, nel senso di comprendere le prime formulazioni radicalmente “non-figurative”, quali costruzioni di forma pura a prescindere da ogni rapporto con la realtà ed anzi in concorrenza con questa. E’ una stagione che comprende nel suo primo momento, nei centrali anni Trenta, l’“astrattismo” lombardo: fra le maggiori affluenze attorno alla milanese Galleria del Milione (da Soldati a Reggiani, da Bogliardi a Melotti, allo stesso Fontana, in primis) e l’attività del gruppo comasco (anzitutto Rho e Radice), connesso a quello degli architetti “razionalisti” (Terragni, Lingeri, Cattaneo). E nel suo secondo momento, nel secondo dopoguerra, si manifesta nella vicenda del “MAC”, il “Movimento Arte Concreta”, fondato nel 1948 a Milano (da Soldati, Dorfles, Munari e Monnet). Una stagione che in uno scenario europeo (ma infine non più soltanto tale) si iscrive, pur con una minore originalità e anche certamente una minore tempestività rispetto al Futurismo, nel grande quadro delle fortune pre- e postbelliche dell’“arte concreta”. La terza grande stagione caratterizzante sostanzialmente il percorso offerto dalla mostra è appunto costituita dalle esperienze dell’Informale, come polarità estrema, entro la quale il problema del non-figurativo si pone nei termini di una rivendicazione aurorale del linguaggio, come dire dell’urgenza espressiva (anteriormente dunque ad ogni possibile distinzione fra figurazione non-figurazione). L’“astrazione lirica”, il gestualismo, il segno, il materismo si contrappongono di fatto all’astrazione “costruttiva”. E tuttavia, se l’Informale è il grande evento ulteriore concorrente nelle vicende della non-figurazione in Italia (come del resto altrove, di qua come di là dell’Atlantico), altre formulazioni meno radicali, più mediane, si sono contrapposte fra secondi anni Quaranta e primi Cinquanta, a quelle di impianto non-figurativo geometrico. Così è accaduto al gruppo romano “Forma” i cui sviluppi (fra Dorazio, Turcato, Perilli, Consagra, l’Accardi e Sanfilippo, in particolare) sono risultati notevolmente ancorati ad una mentalità di fiducia formalistica (guardavano inizialmente a Magnelli e alle nuove formulazioni di Prampolini). Ed è accaduto al raggruppamento al quale Lionello Venturi attribuì nel 1952 una posizione di equidistanza fra astrazione e rappresentazione sotto l’etichetta di “astratto-concreto” (i famosi “Otto pittori italiani”, proposti allora sulla scena internazionale nella Biennale di Venezia: Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova). Immaginando plausibilmente anche simpatie nell’ambito della scultura (fra Viani e Mastroianni). Ma l’Informale è stato veramente “altra” cosa (Michel Tapié, com’è noto, parlava di “un art autre”), nella sua radicalità di conficcamento entro la dimensione esistenziale, fuori d’ogni riscontro in dimensione puramente ideale dell’immagine. Il segno, il gesto, il materismo emblematicamente attestano allora di questa immediatezza nuova di riscontro nella dimensione dell’“esserci” esistenziale. Ma l’Informale, s’è detto, non fu soltanto non-figurativo; né nel suo versante non-figurativo si configurò in modo monocorde ma anzi secondo una svariata gamma di formulazioni. Per questo, anziché riunire tutto quanto riguarda questa grande conclusiva stagione del percorso della mostra sotto un unico momento, ho distinto nella mostra tre momenti, proprio per sottolineare una molteplicità di situazioni, relativamente appunto alle eventualità non-figurative dell’Informale stesso, nella sua articolazione problematica. E così ho tenuto a sottolineare, come momenti distinti, le ricerche dello Spazialismo a Milano (fra Fontana e in particolare i giovani Dova e Crippa) e a Venezia (fra Guidi, De Luigi, e in particolare Tancredi, Finzi), nello scorcio degli anni Quaranta e nei primi Cinquanta. E quello di segno e materia a Roma, attorno al gruppo “Origine” (fra Burri, Colla, Capogrossi, Cagli). Per poi distendere la campionatura delle formulazioni non-figurative “informali” fra materismo (Burri, Mannucci, Franchina, Leoncillo), gestualità segnica (Vedova), gestualità materica (Moreni), organicità (Vacchi), scrittura segnica (Scanavino), dinamismo materico (Somaini). In tutto, appunto, undici momenti sufficientemente distinti, nelle vicende della ricerca non-figurativa in Italia. Nella mostra a ciascun momento si accede varcando altrettanti “portali” che, secondo l’ottimo allestimento di Valeriani, pausano anche visivamente l’articolato percorso complessivo.