Un uomo, una donna. E i diversi vizi da cui, entrambi, debbono guardarsi. Maurizio Bernardelli Curuz rilegge, evidenziando elementi nuovi riferiti alla presenza di più simboli, i quattro dipinti di Giovanni Bellini che decoravano, con temi moraleggianti, un mobiletto nuziale del suo allievo, Vincenzo Catena. Ciò che emerge è un monito sulla concatenazione dei vizi.
[Q]uattro piccole immagini dipinte da Giovanni Bellini costituiscono un’avvincente palestra interpretativa attorno alla quale si dischiudono le porte che ci conducono al centro della vita matrimoniale, nella Venezia del tardo Quattrocento.
Le opere vennero realizzate attorno al 1490 per Vincenzo Catena – un allievo dell’artista -, che trentacinque anni dopo non dimenticò di inserire, nell’elencazione testamentaria dei propri beni, il restelo decorato da Bellini, un mobiletto con specchi e dipinti, antenato, per certi aspetti, dei nostri mobili da bagno nei quali si ripone il necessaire per l’igiene personale e il trucco. Nell’anno in cui il lavoro d’ebanisteria e pittura destinato a casa Catena venne alla luce, questo particolare mobiletto era considerato un genere di lusso la cui realizzazione era proibita per legge.
La politica suntuaria di Venezia puntava infatti a ridurre le spese smodate dei cittadini per abiti e status symbol, generi che si profilavano come un ottimo strumento nelle mani delle classi emergenti – ed è palese qui una profonda motivazione politica, nell’ambito della serrata dell’oligarchia serenissima alla scalata di nuove realtà sociali -, le quali si conformavano ai modelli della grande nobiltà, confondendosi con essa.
Procedura inversa, quella adottata dal serenissimo governo, rispetto alla nostra economia di mercato che, pur basandosi sui processi emulativi, crea status symbol, apparentemente per l’upper class, contando in realtà sulla gara di acquisizione d’oggetti fortemente rappresentativi per categorie socialmente inferiori.
Senza rispettare la norma del governo che aveva dichiarato illegale, a partire dal 1489, tra altri generi di lusso, la realizzazione dei sontuosi mobiletti “da bagno”, l’elegante contenitore, i cui dipinti forse costituivano un dono nuziale del maestro all’allievo, giunse comunque a Catena, il quale, nel 1525, redigendo il testamento, annotò appunto, tra i propri averi, la presenza di un “restelo chon zerte fegurete dentro dipinte da misser Juan Belino”.
Scomparsa la struttura lignea, sono splendidamente sopravvissuti i dipinti in origine inseriti in essa, tre dei quali di dimensioni identiche (34×22 centimetri), mentre il quarto risulta di due centimetri inferiore sulla linea dell’altezza.
Le opere sono conservate a Venezia alle Gallerie dell’Accademia. Una quinta tavoletta, che raffigura la Fortuna come dea bendata, è stata scartata dagli studiosi, nell’ambito della virtuale ricostruzione del restelo, a causa di manifeste discontinuità stilistiche rispetto agli altri quattro soggetti, anche se forse risulterebbe opportuno valutare la possibilità, considerata l’attinenza semantica compensativa della figura augurale all’elencazione quadripartita dei vizi e delle virtù, che il dipinto sia stato realizzato, in aggiunta a quelli del maestro, dallo stesso Catena o da un altro artista della bottega.
Queste icone moraleggianti, oltre ad offrire un saggio di pittura fragrante, sospesa tra i dipinti araldici d’imprese e le vivide narrazioni delle predelle delle pale d’altare, rappresentano una testimonianza di enorme interesse tanto nell’ambito della semantica dell’allegoria rinascimentale quanto sotto il profilo storico-antropologico, poiché offrono, con il flash della sintesi estrema, elementi che consentono la comprensione delle coordinate etico-morali che venivano fatte discendere – dalle grandi predicazioni e dall’etica imperante – nelle singole case ad uso dell’uomo e della donna che affrontassero la scelta matrimoniale.
Il restelo, essendo mobile d’uso quotidiano da parte della coppia, come dimostra inequivocabilmente la ripartizione dei soggetti tra un “dittico femminile” e un “dittico maschile”, si proponeva d’offrire gli spunti per la meditazione mattutina e un memento sui rischi da evitare nel corso della giornata che si dischiudeva.
Il primo messaggio alla donna sui rischi della malinconia
In un paesaggio cupo raggelato da un’aurora o da un tramonto, che crea uno strappo inquietante nel cielo celeste che vira al cinerino, un’imbarcazione priva di remi e di timone scivola in acque scure, trascinata dalla corrente. Sull’elegante guscio sta seduta una donna elegante, il cui abito si gonfia a causa del vento, come il peplo della dea bendata. La giovane signora sostiene fiaccamente, con una mano, la sfera della fortuna. Gli occhi sono chiusi. Il suo volto, gravato dalla malinconia, s’inclina in direzione del petto. Al ventre s’avvinghia un bimbo e un altro piccolo, dietro di lui, osserva colei che gli appare come madre con un’espressione di agghiacciata invocazione.
In primo piano, Bellini mostra drammaticamente gli esiti di una malinconia devastante. La disattenzione della madre, tutta compresa nel dolore della propria psiche e proiettata all’interno delle proprie palpebre e del proprio cuore aritmico, provoca la caduta di due bambini-eroti, uno dei quali viene trascinato verso morte certa, mentre il secondo cerca una disperata risalita sulla barca.
La sfera ferma, abbandonata, è allegorica della malinconia come abbandono dell’atteggiamento attivo della fortuna. Essa infatti appare, sempre accanto a personaggi femminili, in diversi dipinti e incisioni, tra i quali citiamo l’omonima opera di Domenico Fetti (1552) nella quale la sfera vitrea è collocata sotto un tavolo, la celeberrima Melencolia I (1514) di Albrecht Dürer dove appare accanto alla triste donna-angelo, tra arnesi da falegname abbandonati e un disordine che colpisce persino la natura, attraverso la malformazione dell’animale patologicamente raggomitolato ai piedi dell’alata signora e lo strambo poliedro che scherma parte del fondale. Ma è certamente nella Malinconia (1532) di Lucas Cranach il Vecchio che la struttura araldico-allegorica, pur cogliendo, nell’ambito strutturale dell’impaginazione, le suggestioni emanate dall’incisione düreriana, si avvicina maggiormente, per i personaggi schierati in campo, al precedente belliniano.
Ciò, naturalmente, non dimostra che Cranach abbia osservato la tavoletta privatissima di Bellini, quanto che entrambi si trovarono a recuperare materiali iconografici contigui da un serbatoio comune, il cui accesso doveva risultare, agli artisti, piuttosto diffuso. Comuni alle due scene sono la figura della donna triste – che in Cranach scortica nervosamente un rametto, svolgendo cioè un’azione inutile, che forse allude al tedio e all’accidia -, la sfera della fortuna inattiva, i bambini eroti e il senso di pericolosa instabilità di uno dei piccoli, che, fuori dalla finestra, vola su un’altalena.
Il quadro di Cranach è completato dalla presenza di due pernici, che generalmente sono collocate nelle opere del Quattrocento e del Cinquecento con una valenza negativa (“Come una pernice che cova le sue uova non deposte…” scrive il profeta Geremia). La malinconia è causa del vizio capitale dell’accidia, che è pigrizia, apatia, disinteresse nei confronti degli altri e della vita. Sentimento malinconico che diviene malattia perniciosa per chi non sia un artista, in grado di utilizzare il sentimento struggente di non appartenenza al piano ordinario del presente per assurgere ai più alti livelli della creazione. Per una giovane madre la malinconia porta alla cecità rispetto agli obblighi familiari, e a un abbandono senza limiti, prodromo di infinite disgrazie. Affinché i giochi del destino siano mutati, è necessario che la donna salga sulla sfera, trasformandosi nell’immagine della fortuna.
Il secondo messaggio alla donna: attenta ai rischi demoniaci della superbia, provocata dalla vanità
Come atteggiamento posto agli antipodi della depressione malinconica e dell’accidia, l’esercizio della vanità è il secondo rischio principale a cui la donna, a giudizio di Bellini, può esporsi, quando la sua fronte s’alza sprezzante e il corpo statuario viene esibito e contemplato in uno specchio. Il rischio dell’eccessiva cura esteriore, che è pur sempre un modo di guardare esclusivamente a se stessi – e non in se stessi, come avviene nell’inclinazione malinconica – disinteressandosi di ciò che accade nel mondo, è strettamente legato alla tipologia e alle funzioni del contenitore per il quale il piccolo quadro di Bellini era destinato.
L’opera pittorica si profila pertanto come diretto monito rispetto ai rischi ai quali la proprietaria del restelo si esponeva, aprendo il portello del contenitore e recuperando, oltre ai prodotti per l’igiene personale, bistri e belletti. Il femminile nudo giunonico – che rinvia nelle forme opime più ai corpi descritti dalla pittura fiamminga di Van Eyck e Memling che alla statuaria classica – troneggia in un tripudio di morbida carne, con la muliebre lievitazione del ventre e i capelli sciolti, poggiando i piedi su un tamburo marmoreo, evidente richiamo all’antichità, sul quale, nella finzione di bassorilievo, è dipinto il bucranio in festone, simbolo della morte.
Vanitas vanitatum, la cura eccessiva per la bellezza sembra togliere ogni proiezione nei confronti della vita spirituale nonostante la carne, per quanto statutariamente eccelsa e per quanto dotata della protervia di una giovanile immortalità, sia destinata a precipitare tra le orbite cave della testa scheletrica del bovide, verso l’oscura pietra mortale. Né servirà, per preservarsi dal decadimento fisico, la cavità absidale all’interno della quale la donna vanitosa s’atteggia come una dea scolpita nel marmo. Bellini dimostra di giocare magistralmente con le funzioni esercitate dai tre putti che appaiono ai piedi della vanitosa. Tamburo e trombe, se da un lato sostengono sonoramente il trionfo della bellezza, diffondendone, come gli strumenti degli araldi, la conoscenza – come s’addice alle vanitose, che bastano a se stesse ma intendono accendersi alla stregua di fiamme negli occhi dai quali sono osservate -, dall’altro evidenzia la natura temporanea del suono, il suo rapido estinguersi. Concetto, questo, che verrà ampiamente ripreso, soprattutto nel Seicento, attraverso la rappresentazione delle vanitates che raffigurano strumenti musicali abbandonati a se stessi.
Un particolare di straordinario interesse risulta lo specchio ad occhio di bue dalla cornice dorata che viene retto dalla donna. Il vetro materializza infatti, come un fiato caldo evocato dalle profondità abissali del peccato, un inquietante, fantasmatico volto di uomo che s’erge su un torso coperto da un abito rosso. La donna vanitosa indica lo specchio, forse non avvedendosi che il riflesso restituisce il sembiante del demonio; apparizione, questa, che risulta un elemento perdurante nell’ambito delle rappresentazioni della vanità punita, come del resto avviene in alcune xilografie medievali, nelle quali il demonio giunge a dilatare con le dita le proprie natiche per mostrare i recessi più profondi alla donna che si osserva nello specchio.
Anche in Hieronymus Bosch o nell’allievo a lui stilisticamente molto vicino che realizzò, in un periodo compreso tra il 1500 e il 1525, l’occhio-ruota dei Sette peccati capitali, la superbia è rappresentata da una donna borghese che, davanti a un armadio, osserva la propria immagine riflessa nello specchio impugnato da un lupo-demonio nella versione di una servizievole cameriera, come fosse il personaggio di un fumetto novecentesco, segno di una continuità del rapporto tra superficie riflettente, donna e diavolo nell’immaginario collettivo, secondo un pensiero che perdura ed è registrato, a livello di superstizione, fino ai primi decenni del secolo scorso. Riferendosi anch’egli ai vizi capitali, Giovanni Bellini, nel piccolo dipinto relativo alla vanità del restelo, sembra lasciare aperta la possibilità che l’opera sia letta come raffigurazione della superbia. Vanità, superbia e lussuria risulterebbero cioè atteggiamenti strettamente correlati e compresi pertanto nella stessa immagine.
Il primo messaggio al maschio: guàrdati dalla gola e dalla pigrizia
Le altre due tavolette di Bellini sono la quota parte moralizzatrice destinata al maschio, quindi, nel caso specifico, all’allievo Vincenzo Catena. Il primo dipinto, conosciuto con il titolo Perseveranza, ma che potremmo ridefinire nei termini di Monito sui rischi della gola e dell’accidia, mostra un guerriero in corsa – la cui immagine è evidentemente ricavata dal mondo classico – che sostiene un ampio scudo e impugna una lancia.
In primo piano, una biga romana trascinata da bambini-eroti trasporta il florido, adiposo Bacco, che compie un gesto di tentazione nei confronti del guerriero, offrendogli un piatto colmo di frutti. La differenza tra le due figure maschili è palese: opimo, il dio del vino, con un femmineo ventre prominente e un accenno di seno; virile, e statuariamente scolpito nello slancio della corsa, il guerriero.
La gola e i piaceri corporali, tra i quali la lussuria, non possono arrestare l’uomo – argomenta pittoricamente Bellini – nel corso della propria battaglia per la vita. Fermarsi accettando l’offerta equivarrebbe ad assecondare le richieste più molli del corpo.
Il secondo messaggio al maschio: i rischi dell’accidia e dell’ira
Sotto il profilo iconologico, questa allegoria risulta particolarmente complessa ed è stata letta, da più studiosi, come raffigurazione dell’invidia, dell’accidia o della rinascita. Evidentemente non si è tenuto conto della tendenza di numerosi artisti rinascimentali italiani a creare, nello stesso dipinto, sistemi polisemici attraverso elementi allegorici interrelati.
La convergenza dei segni instaura infatti nello spettatore moderno, che affronta molto spesso l’icona con un’osservazione concettualmente univoca e frontale, alla ricerca di un significato unico, un senso di sconcerto, a causa di tracciati semantici che si profilano in realtà come accumulo di significanti che stratificano sullo stesso soggetto. Così, la quarta opera dedicata al maschio non indicherebbe, a mio giudizio, un solo rischio di peccato, ma unirebbe ben tre vizi capitali: l’accidia, l’ira e la maldicenza. La considerazione sottesa è che il vizio – come abbiamo visto nelle operette del restelo destinate alla donna – produce altri vizi.
Non vi sono possibilità di dubbio sul significato allegorico assunto dall’uomo che sguscia dalla conchiglia retta, con la levità di una portantina, da due servitori; il maschio-mollusco coltiva una pigrizia accidiosa, pronta a trasformarsi nel serpente dell’invidia verso chi agisce con successo nel mondo, fino a tramutarsi, ancora, in ira.
Il vizio capitale dell’invidia era stato del resto precedentemente rappresentato da Giotto, nella cappella degli Scrovegni, attraverso un serpente che fuoriesce dalla bocca del personaggio simbolico, le cui gambe sono avvolte dalle fiamme dell’inferno. Ma Bellini, pur assumendo l’immagine della serpe, ne rivolge sinistramente la testa in direzione dell’uomo-mollusco, il cui volto brunito sembra proprio divenire scuro a causa dell’ira. Ecco allora instaurarsi una sequenza pertinente: l’accidia, nell’uomo, produce invidia, la quale germina l’ira.