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di Maurizio Bernardelli Curuz
Quadri nuzialmente erotici – ma privi della violenza del desiderio, giacché le donne raffigurate hanno assunto la morbida consistenza di statue di carne o di finissime terrecotte dipinte con colori tenui – costituiscono l’epica dell’utero trionfante, nell’ambito delle complesse trattative matrimoniali tra la favoritissima Gabrielle d’Estrèes e il suo re. Ora guardiamo i dipinti prestando molta attenzione agli atteggiamenti delle persone effigiate, alle posture eloquenti, agli sguardi e ai simboli che sono messi in gioco dai pittori. Ci accorgeremo che essi non costituiscono tanto una vera e propria sequenza narrativa che appare nella forma della soap opera tratteggiata con tardi, ma nobili colori del Rinascimento francese. Lei, bella e disponibile; lui, fuori campo, ricco, regalmente potente e donnaiolo; lei che vuole essere sposata; lui, soprannominato le vert galant (il verde galante, a causa dei suoi abiti civettuoli da seduttore) che prende tempo; lei che arremba con dolcezza, lui che finge di non capire; lei che avanza mettendolo davanti al fatto compiuto di una vigorosa e maschia figliolanza, lui che alla fine cede, fino ad arrivare a giuste nozze.
Ecco, allora, la chiave: i dipinti, commissionati evidentemente da Gabrielle o da sua sorella, poiché è palese il punto di vista dal quale la realtà viene osservata, assunsero una valenza esortativa, rispetto al raggiungimento dell’happy end matrimoniale. Tele e tavole ebbero cioè il compito di sollecitare la generosa aderenza del re ai diritti inalienabili dell’amore, affinché egli non solo riconoscesse il ruolo insostituibile di Gabrielle come amante, favorita, compagna segreta, madre di prole regale che viveva in una dimensione di riservatezza – l’immagine del bagno rafforza l’idea del segreto e del pudore svelato -, ma, attraverso il linguaggio delle immagini, accogliesse una silenziosa domanda matrimoniale che stava sospesa a mezz’aria. Trattative difficili, quelle con i re. Impervie fino al rischio di precipitare in disgrazia, con un sovrano, come quello francese, che aveva una vera passione per le donne e che, nella sua carriera d’amatore, mise al mondo, extra moenia, nove figli, che poi magnanimamente riconobbe, anche se a questo computo mancano frotte di bambini che egli dovette suscitare dal ventre di donne sconosciute con cui giacque. Non sappiamo dove i dipinti di Gabrielle al bagno fossero collocati in origine, ma l’ipotesi più plausibile, trattandosi di cronache intimissime e totalmente prive di quei riferimenti mitologici che, in precedenza avevano consentito di conferire pubblicamente alle dee le fattezze delle amanti dei sovrani precedenti, è che le opere-manifesto decorassero, lanciando messaggi e appelli insistenti, la parte più privata e inaccessibile dell’appartamento di Gabrielle, forse la camera da letto. La permanenza del re in quella stanza, durante gli incontri d’amore, consentiva alla donna di avvolgere il sovrano tra le sue braccia e tra le immagini eloquenti del proprio sindacalismo affettivo. Messaggi eleganti più che dirette richieste d’apertura di un tavolo di trattativa, secondo quella modalità di chiedere senza imporre che ha sempre caratterizzato le donne di condizioni sociali inferiori rispetto agli obblighi del maschio dominante. In queste fragranti sequenze di pelli profumate e di conturbanti silenzi, non si gioca soltanto la semplice partita degli affetti.
I quadri parlano dell’offerta d’amore accettata dal Re, tramutata in rapporto sessuale, divenuta carne della sua carne attraverso la nascita dei figli. E poiché sul trono, accanto ad Enrico III di Navarra – il futuro Enrico IV di Francia -, poneva il proprio ventre sterile la regina Margot, la giovane Gabrielle esibiva il frutto prodigioso des ses entrailles, tre splendidi figli, dei quali due maschi, avanzando la giusta petizione finalizzata al riconoscimento del suo ruolo e di quello dei suoi bambini. Si può pensare che Gabrielle, forse seguendo il consiglio di una delle acutissime sorelle – la quale appare in ben tre dipinti della serie, in qualità di difensore e nobile quanto elegante mezzana -, avesse proposto ai pittori di fiducia la realizzazione di un autentico ciclo che assumesse la valenza di una rivendicazione o che, dimostrando l’accoglimento dei regali favori, rilanciasse verso l’appartamento matrimoniale, come piena soluzione della vicenda amorosa. Ma procediamo à rebour. Gabrielle era nata nel 1570 a Montlouis sulla Loira, e quando posò per queste opere aveva un’età compresa tra i ventiquattro anni e i ventinove anni. Fisico asciutto, seni da moderna indossatrice, statuariamente abbozzati, come Venere novella, sul delicato torace, capelli decolorati secondo la moda delle donne cantate da Catullo, uno sguardo nobilmente imperturbabile, la giovane era figlia di Antoin d’Estrées, generale d’artiglieria e governatore dell’Ile de France. Per uno di quegli imperscrutabili giochi del caso che all’inizio paiono frutto di pure coincidenze, ma che lasciano poi trasparire un disegno preordinato della fortuna, Enrico di Navarra era giunto, verso la fine del 1590, quando Gabrielle mostrava il protervo fulgore dei vent’anni, al castello di Coeuvres, residenza della famiglia d’Estrées. Nel volgere di pochi giorni – anche forse in virtù delle intermediazioni dei familiari, i quali ebbero da considerare tutti i vantaggi di una liaison regale – divampò una passione travolgente, al punto che, tempo dopo, il sovrano impose alla giovane donna il matrimonio con un nobiluomo che fungesse da schermo.
Quindi, avendo meglio valutato le profonde affinità con Gabrielle, la obbligò al divorzio, chiamandola a corte, nominandola duchessa di Beaufort e assegnandole in seguito vari altri titoli che recavano con sé vaste proprietà di giurisdizione ducale e numerosi onori per i familiari. Dopo una lunga attesa e un lavoro minuzioso svolto da Gabrielle e dalle sorelle, si giunse in vista dell’annullamento del matrimonio tra Enrico di Navarra e la regina Margot, per mancanza di discendenza. Vennero così stabilite per il 10 aprile 1599 le nozze fra il re e Gabrielle D’Estrées; ma la notte della vigilia, tra il 9 e il 10, la giovane, incinta di sei mesi – aspettava infatti il quarto figlio -, fu colta da violentissime convulsioni dopo aver bevuto una limonata, malore che la condusse, in breve, alla morte. Si sospettò che Gabrielle fosse stata avvelenata, ma i medici formularono l’ipotesi che la causa della fine fosse da ricondurre a un colpo apoplettico. Certo una coincidenza foriera di molti dubbi. La finalità della serie di Gabrielle al bagno realizzata tra il 1594 e il 1599, secondo i canoni dell’école di Fointainebleau – che univa la precisione della pittura fiamminga alla solarità statuaria degli sviluppi del Rinascimento italiano – risulta quindi acclarata. L’happy end pare lì, a portata di mano, ma noi sappiamo che questa sequenza nella quale freme la speranza, e la speranza si spalanca ai cuori placati dalla certezza di un appuntamento nuziale ineluttabile, rimane come ultima testimonianza dell’attesa trepidante di Gabrielle, che poi precipiterà nella morte. La tavola conservata al Louvre (96 x 125 cm, realizzata in un periodo compreso tra il 1594 e il 1599, ma a nostro giudizio da collocare, in quanto anello prologo della storia sequenziale, proprio al ’94) è il primo quadro della serie. Gabrielle e la sorella – che si ipotizza sia la duchessa di Villard o la marescialla di Balagny – appaino nude nella stanza da bagno. E’, la loro, una nudità statuaria ed elegante, derivata, sotto il profilo stilistico, dalle ampie decorazioni eseguite dal Primaticcio nell’appartamento dei bagni, a Fointainebleau, con personaggi mitologici simili a statue animate, d’una bellezza alabastrina. Sotto un ampio drappo rosso, che ha la funzione di conferire al dipinto un’atmosfera intima e teatrale ad un tempo, appaiono le due sorelle. Siamo al momento dell’offerta, della nobile esposizione del corpo di Gabrielle come un sommo prodotto: la sua carne è avvolta da una pelle di straordinaria bellezza. La mano della sorella che stringe lievemente il capezzolo dotato di una morbida natura che lo assimila ad un succoso frutto di bosco, ma soprattutto lo sguardo delle due donne consentono di comprendere la genesi e la finalità del dipinto stesso. La sorella, infatti, osserva lo spettatore con la malizia lieve ma inequivocabile di chi esibisce, sul banco, un prodotto di prima qualità, ammiccando all’acquirente e stabilendo con lui un rapporto di commerciale intimità. Lo sguardo di Gabrielle, per quanto orientato nella stessa direzione, è invece virginalmente ignaro, come si addice a quello di una preda designata. Le mani delle due donne compiono lo stesso gesto; e, nella partita doppia del dare e dell’avere, Gabrielle tiene delicatamente tra le mani un anello che incastona uno smeraldo. E’ la sollecitazione di un riconoscimento nuziale?
E’ la richiesta del fidanzamento, come lascia intendere, appunto, quella pietra? L’osservazione di molti dipinti del Cinquecento italiano mostra l’elevata frequenza dell’uso di due anelli: uno che reca in castone lo smeraldo, l’altro il rubino. Il primo generalmente collegato al fidanzamento – e, successivamente, alla vedovanza -, mente il secondo, di solito sempre associato al primo, indica lo stato matrimoniale del portatore ed è utilizzato sia dai laici che dai religiosi di alto rango, per simboleggiare il matrimonio con la Chiesa. Ora torniamo a considerare il gesto di Gabrielle che stringe l’anello, proprio in virtù dell’esibizione di un corpo-statuario. Il gioiello e il capezzolo – delicatamente afferrati nello stesso modo dalle due sorelle, con una mano che assume la levità di una farfalla – costituiscono i principali nodi semantici del dipinto. E non è un caso che il pittore li collochi sulla stessa diagonale, che porta in direzione del fondo della scena, dove appare una donna che cuce un corredo nuziale? Un corredino per il bambino che Gabrielle porta ancora nel piccolo ventre compatto? L’ossessione dell’anello – quello nuziale – è dimostrata da un secondo quadro conservato a Firenze. Gabrielle assume qui una funzione attiva, mimando l’apposizione dell’anello al dito della sorella. Un gesto di legame. Di un legame a lungo cercato. Come dire: vorrei metterti l’anello, ma non ne ho la possibilità. Cambia il fotogramma e gli attori si spostano ma l’inquadratura non muta. Percorriamo visivamente il dipinto Gabrielle d’Estrées au bain (un’opera che viene datata tra il 1598 e il 1599, anno della scomparsa della favorita del re, un olio su tela conservato al Museo Condé di Chantilly). La scena, che si svolge sempre nel bagno, diviene domesticamente più serena, mentre la sorella è uscita dall’inquadratura. Siamo evidentemente nei mesi che precedono le nozze, e colei che aspira a diventare regina occupa ancora la stessa posizione nella vasca. Dietro di lei appare César (1594-1665), primogenito della coppia, che il padre, non avendo ancora avuto una discendenza legittima, ha indicato come proprio erede con il titolo di Duca di Vendôme e che in futuro, perso il diritto a causa del matrimonio del genitore con Maria de’ Medici, sarà nominato sovrintendente alla navigazione e al commercio. In braccio ad una nutrice, ecco il piccolo Alexandre (1598-1629), il Cavaliere di Vendôme. Ciò che colpisce è il riquadro irrorato di luce, alle spalle dei personaggi di primo piano. Una luce che penetra profondamente in quella stanza che, in precedenza, era dominata dall’oscurità. L’atmosfera radiosa, la descrizione di una deliziosa scena familiare, sono completate dalla presenza benaugurante di un’alzata colma di frutta, che ricade sulla tavola. Si viaggia così verso l’ultimo dipinto, nel quale Gabrielle indosserà una sontuosa collana di perle.