di Stefania Mattioli
[I]l misterioso “furor creativo”, confinato ai limiti della coscienza e dell’umana volontà, è da tempo associato nel suo manifestarsi più dirompente ad un particolare temperamento, ad uno stato d’animo inquieto, di saturnina derivazione, che determina un modo di essere e quindi di agire: la melanconia. Nell’arte molte sono le immagini che, nel tentativo di rappresentare il momento del processo ideativo e seguendo precise indicazioni iconografiche, si ispirano proprio a tale “sentimento”.
Uno più di tanti altri – facendo scuola – è riuscito però a legare indissolubilmente il suo nome alla “Melencolia”, poiché, rappresentandola, ha saputo imprimerle una forza espressiva quanto enigmatica sino ad allora senza precedenti.Si tratta di Albrecht Dürer, artista universale, raffinato, colto, dedito con rara sapienza a diverse discipline quali la scrittura, la poesia, l’incisione, la pittura e la scienza; dedito a tal punto che ciò gli valse il giusto paragone con i maestri del Rinascimento italiano. Dürer nasce nel 1471 a Norimberga: figlio di un orefice, è il terzogenito di diciotto fratelli. Ben presto, mosso da uno spiccato desiderio di studio della natura e di ricerca della conoscenza, sente il bisogno di viaggiare, di varcare le Alpi alla scoperta del sud, l’Italia. Ma procediamo con ordine. Nell’infinita produzione di Dürer – più di tremila sono le opere di diversa natura che ci ha lasciato -, tre sono le incisioni che assurgono meritatamente al riconoscimento di capolavori: il “Cavaliere e la Morte”, “San Girolamo” e, appunto, “Melencolia I”.Le realizza fra il 1507 e il 1514, quando ha già avuto modo di soggiornare a Venezia, di conoscere la pittura di Gentile e Giovanni Bellini e di Mantegna, di apprendere i fondamenti della filosofia umanista e le teorie di Marsilio Ficino.
Tre opere che (al di là della loro altissima qualità esecutiva, avvalorata dall’impiego disinvolto del bulino, dal fine tratteggio incrociato – teso a calibrare con meticolosa precisione le modulazioni chiaroscurali – e dalla capacità di restituirci figure plastiche e vibranti inserite in spazi prospetticamente costruiti) hanno impegnato gli studiosi nella ricerca dell’autentico significato abilmente celato dal maestro dietro le perfette spoglie dei tre emblematici personaggi. Essi potrebbero rappresentare nell’ordine la fede, la meditazione e l’immaginazione: il Cavaliere si farebbe interprete delle virtù morali, il San Girolamo di quelle teologiche e la Melencolia delle virtù intellettuali.
A prescindere da ciò, con tutte le problematiche interpretative del caso, “Melencolia I” è delle tre l’immagine che indubbiamente suscita maggior fascino in chi la osserva. Oggetto di indagini controverse, essa è infatti l’icona di quel particolare stato d’animo di natura contemplativa di cui si è fatto cenno all’inizio, inevitabile preludio alla creazione artistica che rifiuta da sempre una qualsiasi spiegazione razionale.Se è vero che Dürer pensa e disegna la sua Melencolia utilizzando fonti medievali legate alla rappresentazione dell’Accidia e dell’Avarizia nonché alcuni elementi desunti dalla tradizione allegorica nordica ispirata alla raffigurazione delle Arti liberali (in questo caso la Geometria), quali le peculiarità che l’hanno resa unica e misteriosa? Sulla base delle indicazioni contenute nel “De occulta philosophia” di Cornelio Agrippa (secondo il quale il furor melanconico stimolava le tre più alte facoltà umane: mente, ratio e immaginatio), viene qui rinnegata – e per la prima volta – la connotazione prettamente negativa in passato ad essa legata: la donna alata con il capo chino, lo sguardo perso nel vuoto stagliato sul viso scuro (umor nero) non incarna più esclusivamente il peggior temperamento influenzato da Saturno bensì il travaglio del pensiero creativo, la summa della vita del genio con tutta la sua inquietudine data dalla consapevolezza della lotta perpetua fra pensiero – appunto – e azione. Ecco giustificata così, a detta di Panofsky, anche la presenza dei molti oggetti collocati accanto alla protagonista quali strumenti di lavoro dell’artista stesso. Il cane accovacciato, la corona sul capo divengono segni di una mente eccelsa; il quadrato magico appeso sullo sfondo è invece attributo benevolo di Giove e antidoto all’antica negatività.
Attraverso elementi avulsi dagli schemi meramente letterari, Dürer quindi non si limita ad esemplificare una nozione attraverso un’immagine, ma eleva l’immagine stessa a simbolo. Riscrive cioè, attraverso l’abile disegno, una storia dalle nuove e oscure connotazioni semantiche frutto dell’arguta fusione di più dottrine che saprà fare proseliti nella storia dell’arte e dell’iconologia senza escludere l’universo alchemico ed esoterico. Già, perché, secondo Calvesi, “Melencolia I” rappresenta invece la prima fase della creazione dell’“opus magnum” (nigredo) e gli oggetti – in particolare la scala a sette pioli (sette sono le operazioni per giungere alla pietra filosofale), il crogiuolo, il mantice – vengono letti inequivocabilmente quali strumenti indispensabili per compiere la trasmutazione ascensionale della materia. “L’incisione identifica la malinconia nelle connotazioni negative, che aprono però la mente all’ascesi sapienziale – dice Maurizio Bernardelli Curuz – Ben sappiamo che essa era considerata motore della ricerca alchemica e creativa. Ma l’artista avverte dei pericoli dell’opera al nero. La donna, incarnazione della Malinconia saturnina, assume la postura evidente di tutti i malinconici. Seduta, con un pugno appoggiato alla guancia per reggere il peso della testa, incapace di porsi in azione”. ”
Prosegue Maurizio Bernardelli Curuz: “L’osservazione di ogni particolare nella parte inferiore dell’incisione ci fa capire che la Malinconia, se non supera se stessa conduce l’umanità a uno stadio di disperazione che produce soltanto esseri deformi, poliedri irregolari, prostrazione, pianto dei bambini – troviamo elementi simili, nel Restelo di Vincenzo Catena – abbandono degli utensili, lumi spenti, incapacità di riavviare il meccanismo della Fortuna – la sfera inutile -. Allontana dall’Opera e dalle responsabilità. Ma è pure un dono celeste che consente di pensare nel dolore e di sviluppare la necessità del cambiamento e della trasmutazione metallica. La Malinconia non usa più nemmeno il compasso, indispensabile nel tentativo di quadratura del cerchio e nel calcolo del sezione aurea, procedure presenti nell’alchimia e nell’ermetismo”.
“In secondo piano osserviamo il possibile elemento di svolta, cioè il vaso per la calcificazione e per il transito dalla materia pesante ed imperfetta della realtà a una raffinazione, in direzione della quintessenza. La scala simbolizza l’ascesa; la campana e la clessidra, richiamano al risveglio dall’oscurità. Il quadrato magico la funzione gioviale. L’arcobaleno alchemico promette nuovi frutti, sia nella Grande Opera che nella vita quotidiana. L’umanità deve ritrovare le proprie ali per giungere ad un condizione angelica nella quale tutto è luce e alba. E comprensione del mondo”.