Il sonno eterno, la dolcezza del volto composto, l’eleganza del monumento funebre che rinvia a quello dei regnanti francesi, in Saint Denis, conferiscono alla struttura marmorea lucchese una connotazione di dolce santità del quotidiano. Ecco perché questa giovane donna è oggetto di una venerazione che va al di là dei pur alti canoni estetici. E’ il rapporto della giovinezza con la morte. E Ilaria, morta giovane si rivela cara agli dei, rapita da un ordine superiore che permette di cantare la bellezza della figura umana.L’uso delle maschere funebri e la necessità di aderire all’immagine autentica del defunto, nonchè il lieve schiacciamento della punta del naso, non provocato soltanto dall’erosione causata dalle mani del pubblico, ma probabilmente dal peso del gesso sul volto delle morta, avallano l’ipotesi che questo fosse perfettamente il vero volto della giovane donna, ricavato sul letto di morte.Lo straordinario “realismo cortese” della statuaria gotica – in base al quale le figure apparivano identiche agli originali, ma inserite nel mondo elegante delle corti – superò, in termini di mimesi della realtà, la pittura. Ciò fu probabilmente dovuto proprio all’uso di calchi di gesso. che consentivano di catturare perfettamente ogni forma e di trasfonfderla poi nel legno o nel marmo.
Se in qualunque mese dell’anno, in qualunque giorno, soleggiato, piovoso, caldo, freddo, in qualunque ora un visitatore decidesse di varcare le soglie del Cattedrale di San Martino di Lucca e si dirigesse nella sagrestia per portare il suo saluto alla dolce Ilaria del Carretto difficilmente avrà l’opportunità di trovarsi solo con lei e difficilmente potrà dialogare a “tu per tu”, ad alta voce, il loro potrà essere solo un lungo e intimo dialogo.
Ilaria del Carretto non rimane mai sola. Il fascino discreto della sua delicata e raffinata immagine, trasfusa nell’algido marmo da Jacopo della Quercia, oltre seicento anni fa muove gli animi degli uomini che al cospetto del suo sarcofago marmoreo sembra quasi che a lei si rivolgano in preghiera. Ma Ilaria non è una santa, Ilaria è una semplice donna, una sposa, e una madre, che partorendo la sua secondogenita, che poi porterà il suo nome, muore. Il marito Paolo Guinigi, signore di Lucca, non era per nulla ben voluto in città, tanto che fu cacciato nel 1430. Ma la storia universale non guarda ai particolari, l’osservatore non appare più di tanto interessato ai molti spostamenti che subì la tomba, ai molti cambiamenti della struttura, causati dalla rovina del tempo; chi va – e soprattutto chi ritorna – da Ilaria del Carretto è perchè rimane incantato dalla sua bellezza a cui lo scalpello ha saputo imprimere palpiti di eterno nel suo giovane viso, incorniciano da un mazzocchio ornato da racemi floreali da cui escono composti i capelli. Ilaria indossa il tipico soprabito francese del periodo gotico, la pellanda, in cui le sinuose pieghe parallele della veste si raccolgono nella stretta cinta posta sotto il seno per riaprirsi e riprendere il proprio corso fino a coprirla interamente, così come il medesimo gioco di pieghe appare riproposto nelle maniche lunghe che si chiudono in stretti polsini .
Ai suoi piedi vi è un cane che con sguardo attento si prende cura della sua padrona, forse per volere del giovane marito che volle dichiarare all’amata moglie, con un ultimo gesto, la sua fedeltà. Ma nell’effigie marmorea di Ilaria c’è qualcosa che va oltre, in lei c’è qualcosa di incompiuto, un divenire fermato, ma che nonostante questo continua ad essere e continua ad emanare ed esternare vita. La vita può essere spezzata interrotta a ventisei anni ma a volte nell’eternazione artistica può continuare a fluire, sì continuare a fluire in maniera sicuramente più flebile ma per questo non meno struggente e viva.
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