di Roberto Barucco
[N]ell’ambito della pittura di genere – nel suo minuto racconto della quotidianità più feriale – anche il rito dello spidocchiamento, così diffuso nel passato, assurse a dignità nelle narrazioni di cronaca da parte dagli artisti che inseguivano il canone della realtà. Tra Seicento e Settecento, infatti, a partire dal big bang caravaggesco, che aveva posto il reale – anche più crudo – al centro dell’esplorazione pittorica (e nello sviluppo legato al romanzo picaresco, sulla scia di una sorta di attenzione ambigua riservata dalle classi dominanti nei confronti dei poveri – che erano, al contempo, oggetto di pietà e di scherno -), i pittori entrarono idealmente pure nelle abitazioni più modeste. In questo viaggio, gli artisti fissarono “istantanee” di grande curiosità.
Un percorso che Paolo Sorcinelli – docente di storia sociale all’Università di Bologna – affronta in Avventure del corpo. Culture e pratiche dell’intimità quotidiana, edito da Bruno Mondadori. Partendo dalle evidenze pittoriche ed estendendo la sua ricerca alle fonti, tra precettistica religiosa, letteratura libertina e documenti archivistici, Sorcinelli delinea la storia sotterranea dell’intimità quotidiana.
Il corpo, i suoi rifiuti, la sessualità più o meno proibita, le catarsi notturne al femminile e al maschile, la serafica analisi dei gesuiti, le pratiche igieniche più improbabili. Riti ed evidenze che in buona parte vennero documentate da pittori e disegnatori, come nel caso dello spidocchiamento, al quale lo studioso dedica un denso e documentato capitolo. E’ uno spaccato, che dal Medioevo porta fino alle soglie del Novecento ed illustra visioni culturali e correnti di pensiero, tanto a livello religioso quanto laico.
C’è la sorpresa, come in ogni uovo di pidocchio che si schiude, a grattar via la banalità retorica di alcune forme di espressione: un mondo di donne si mostra, e spazza via le certezze più bigotte.
E’ un mondo al femminile, quello che scopriamo, che conduce per mano attraverso il tempo e le immagini. Se la saga del pidocchio rappresentato sulle tele pittoriche (in fondo, uomini e pidocchi insieme hanno vissuto una lunga storia) è lieta o se la pulce, cantata in prosa, come riporta Samuel Pepys ne Il Diario, a testimoniare una calma serata fra coniugi nel 1669, diviene arte, il pruriginoso parassita si erge a simbolo e bandiera dell’incubo del Novecento per Helga Weissova, bimba di Terezin (che nel lavoro di Sorcinelli non ha riferimenti, ma non potevamo non citare): “Eine Laus – Dein Tod”, “Un pidocchio, la tua morte”.
“Disegna ciò che vedi – dice Helga -, furono le parole di mio padre dopo che gli avevo portato di nascosto, all’interno del campo maschile, il disegno di un pupazzo di neve”.
“Eine Laus – Dein Tod”, minacciavano gli avvisi del campo. Helga disegna a Terezin la vita quotidiana del ghetto e pone fine, attraverso le immagini sul suo blocco, all’infanzia: sono opere, anche queste, a testimoniare un mondo femminile, tracciate nell’“alloggio delle ragazze, L410”.
Il pidocchio, la pulce da trovare e schiacciare diventa simbolo inquietante nei tratti a matita di Helga e non ritmo e quotidianità, come avviene trecento anni prima, per Samuel Pepys: “Rimasti soli abbiamo cenato – scrive appunto ne Il Diario -, poi sono andato in camera da letto ed ho pregato mia moglie di tagliarmi i capelli e dare un’occhiata alla mia camicia perché da sei o sette giorni ho dei fastidiosissimi pruriti”.
Nessun imbarazzo, nessun fastidio. Pulci e pidocchi – che potevano essere vettori della peste e del tifo – vivono allegramente nelle cronache del 1320: nel villaggio di Montaillou, borgo pirenaico di contadini e pastori, il vescovo Jacques Fournier apre un’indagine inquisitoria. I sospetti d’eresia catara vengono messi sotto torchio dal futuro papa Benedetto XII. Le cronache narrano non solo le gesta antisistema dei montanari, ma ne rivelano usi e costumi: è ovvio che lo spidocchiamento – come risulterà nella pittura tra Seicento e Settecento – è parte del rito quotidiano, quasi gesto di buona amicizia. Non manca nemmeno la funzione ed il ruolo sociale: spidocchiatrice ufficiale del borgo pirenaico è madame Raimonde. Tra un parassita e l’altro c’è anche tempo per il pettegolezzo sulla comunità, le gesta del parroco o gli ultimi amori.
Del resto, lo spidocchiamento, dice Sorcinelli, “consolida o sottolinea i vincoli di famiglia o d’affetto e sembra implicare rapporti di parentela o di affinità, anche illegittima. L’amante spidocchia il suo uomo, ma anche la madre di questi”. Dal diario al resoconto inquisitorio: il passo verso la pittura è breve. Nel XVII secolo la preclusione culturale nei confronti dell’acqua è molto più d’una constatazione. Le pitture sei-settecentesche, tanto per contribuire a rivelare quell’universo femminile che orbita intorno ai balzi dei parassiti, hanno privilegiato scene di donne intente alla doverosa incombenza.
L’operazione solitamente viene eseguita da un’altra persona e denota spesso legame affettivo fra operatore e soggetto. “Si veda con quanta intensità due uomini osservano la scena di una donna che interviene sui capelli di un uomo in ginocchio e seminudo in un dipinto di Andries Both”. O come il rituale possa preludere, con lo schiacciamento tra le unghie o il lancio nel fuoco, spesso di candela, anche all’incontro amoroso. Lo lascia presupporre l’abbigliamento discinto della donna raffigurata da Jacob van Campen o di quella, seduta sulla seggiola, intenta al gesto: la dipinge con efficacia Georges de La Tour. Non manca, nell’onirico sogno di catarsi precoitale, il letto: lo celebra Giuseppe Maria Crespi, con la donna questa volta seduta sul bordo. Una sorta d’offerta. “In ogni caso
– sottolinea Sorcinelli – è chiaro che stanno per andare a letto, da sole o in compagnia”.
Insomma, un gesto d’affetto, lo spidocchiamento, quasi tribale, sostitutivo di carezze e baci? All’epoca dei lumi non c’era donna, nonna o madre che fosse, che non si cimentasse con le capigliature ed altre parti meno nobili. Normalmente il rito spettava alla femmina di casa più anziana. Giuseppe Gioacchino Belli (siamo nel 1835), compone un sonetto per La pulciarola, ed il poeta siciliano Domenico Tempio (1750-1821) non esita a dedicare dei versi a La pulici cridennusi. L’Ottocento non tralascia le tentazioni da esposizione universale; Arthur Rimbaud inneggia alle “dita elettriche e dolci” ed alle “unghie regali” con cui “les chercheuses font crepiter la mort des petits poux”.
Un fenomeno diffuso, a livello pittorico: oltre agli autori già citati, non sono immuni dall’immortalare le gesta del fastidioso animaletto, ad esempio, Gerrit van Honthorst e Gerard Ter Borch, scuola fiamminga, Giovanni Guerrieri, ed ancora il tedesco Quirin van Brekelenkam o lo spagnolo Esteban Murrillo.
,“Pidocchi e pulci non hanno certo la stessa rilevanza dei soggetti sacri, ma godono ugualmente di un periodo d’inaspettata gloria artistica” annota Sorcinelli. La peste, come il tifo, dramma devastante delle epoche a cavallo della rappresentazione pittorica, non è tenuta in considerazione, come fine ultimo del viaggio dei pidocchi o delle pulci. La quotidianità, il rito, non prevedono incubi. Le figure sui quadri sono aggraziate, leziose. L’incubo vero si materializzerà più tardi. Nel Novecento, che aveva sconfitto la peste ed il tifo, in Europa, ma non la parte più oscura dell’uomo. I pidocchi ritornano, spauracchio tragico dei sogni in bianco e nero di Helga, nella baracca di Terezin, e nei suoi disegni. “Eine Laus – Dein Tod”, “Un pidocchio, la tua morte”. Ma questa è una quotidianità diversa, che si abitua anche a convivere con l’orrore.