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di Maurizio Bernardelli Curuz
[C]icerone tuonava pubblicamente contro l’insana abitudine dei collezionisti di eccedere nei confronti del possesso d’opere greche e, in segreto, coltivava la stessa passione con una brama esponenziale rispetto alla violenza delle requisitorie. Le sue collezioni – relativamente soprattutto alla statuaria ellenica – erano sterminate. Intendeva persino allestire nei portici “della sua dimora tuscolana nientemeno che il Liceo e l’Accademia di Atene”.
Ma la cupidigia dei personaggi pubblici romani nei confronti delle opere d’arte – ripetiamo: greche, soprattutto greche, giacché l’arte romana svolse per lungo tempo una funzione ancillare, fortemente dominata dagli stilemi della grande civiltà mediterranea – non si esauriva nel semplice acquisto di prodotti, ottenuti attraverso la mediazione di mercanti o di corrispondenti che risiedevano in Grecia. Antonio arrivò a far proscrivere Verre per impadronirsi delle sue statue in bronzo. E in modo analogo si comportò Augusto per mettere le mani su due busti di Corinto. Maria Letizia Gualandi nel volume “L’antichità classica” edito da Carocci riferisce pure dell’amore sfrenato di “Ortensio, di Caio Cestio e di Nerone per alcune statue, che si portavano dietro perfino in viaggio”.
L’orizzonte espressivo era dominato naturalmente dall’arte intesa come imitazione della natura, fino all’illusionismo. Un’arte che rifiutava le suggestioni geometriche ed astratte della cultura mediorentale. Mìmesis, quindi, imitazione. “Tale fondamento – scrive M. Letizia Gualandi – non è mai venuto meno nel corso dell’antichità classica, nonostante i contatti che i Greci prima e i Romani poi ebbero con le culture aniconiche di origine orientale, prima di tutte quella ebraica, la cui influenza è alla base della polemica contro le immagini, considerate espressioni di culto idolatrico, che caratterizza le prime fasi del Cristianesimo”.
Gli artisti: anche se abili erano considerati artigiani
Per capire quale fosse lo status degli artisti è utile una lettura filologica. “Non c’è in greco – afferma l’autrice – un termine specifico per indicare l’artista, che di norma è definito con vocaboli come bànausos o technìtes, gli stessi con cui sono designati gli artigiani e chiunque eserciti un lavoro manuale per guadagno; e non esiste neppure un termine per indicare l’arte, mentre esistono vocaboli che, nell’ambito delle téchanai, ovvero dei vari mestieri, definiscono le singole arti”. Eppure, nonostante questa posizione socialmente subordinata a cui erano costretti sia l’artista greco che quello romano – la distinzione sociale era basata sulla differenza tra chi praticava lavori manuali e chi apparteneva alla classe degli intellettuali e dei nobili -, esistevano eccezioni legate precipuamente alla fama del pittore o dello scultore. Questo valore oggettivamente riconosciuto era destinato a crescere – e ad elevare socialmente il pittore o lo scultore – se lo scultore o il pittore greco avessero manifestato – attraverso la pubblicazione di un trattato – d’essere intellettuali in grado di produrre teoria. Secondo lo stesso principio, a uomini e donne del patriziato, come riferisce Plinio, era possibile sviluppare parzialmente un ruolo attivo in campo artistico: niente scultura, quindi, né ampie pitture parietali – che richiedevano uno sforzo fisico -, ma dipinti che potremmo definire “da cavalletto”, secondo una consuetudine che sarebbe rimasta invariata in duemila anni di storia, nell’ambito di un ruolo formativo della pittura, nello sviluppo delle capacità di osservazione del mondo. “Fin dalla prima metà del IV secolo a.C. – argomenta l’autrice -, almeno una delle tecniche artistiche, la pittura su tavola – non a caso la téchne che richiedeva minor impegno fisico e che per questo poteva essere praticata anche dalla donne -, era diventata con Panfilo una delle arti liberali e materia di insegnamento per i giovani nati liberi”. <
Le firme e i falsi L’ambizione dei pittori
Le firme sui dipinti sono piuttosto rare nel mondo romano, mentre più frequenti risultano in quello greco. “Le firme – annota Gualandi – scompaiono quasi del tutto a Roma, dove soltanto quelle dei grandi maestri del passato continuano ad avere un valore – come attesta Fedro -, mentre gli artisti “contemporanei” appaiono relegati nel più completo anonimato: quelli che fanno eccezione sono pochi e, forse non a caso, sono in genere artisti provenienti dal mondo ellenizzato. Prendiamo ad esempio la ‘Storia naturale’ di Plinio: in essa compaiono circa 350 nomi di pittori e scultori di origine greca, mentre sono appena nove i nomi di artisti romani, di cui otto pittori ed uno scultore”. La caccia alla firma caratterizzava anche quell’epoca lontana. A parità di qualità, l’opera assumeva valori più elevati se contrassegnata dall’autografo dell’autore. Ciò, naturalmente, promosse un vasto commercio di falsi. All’apice del successo, un artista – oltre a vergare la propria firma sull’opera – voleva offrire agli spettatori le fattezze del proprio volto. “Il più celebre autoritratto dell’antichità – scrive Gualandi – è probabilmente quello di Fidia, che aveva osato raffigurare se stesso come un vecchio calvo, in atto di sollevare una pietra, addirittura sullo scudo di Atena Parthénos: e non è un caso che questo gesto d’inaudita presunzione avesse suscitato scandalo presso i contemporanei”; come del resto avvenne per l’architetto Teodoro, che si era rappresentato “con una lima nella mano destra e con un pezzo di bravura miniaturistica nella sinistra (una quadriga tanto piccola da stare sotto le ali di una mosca)”.
Promozione sociale? Pochi casi documentati
Raggiunto il massimo successo – ma i casi, come documenta il libro, erano piuttosto rari -, i protagonisti delle arti figurative potevano veder riconosciute le ambizioni di una relativa promozione sociale. Con la seduzione di un quadro – seduzione che diventa arma per la dimostrazione di una conclamata abilità -, “il pittore Ezione sposa la figlia di uno dei giudici di gara di Olimpia”, mentre una parente stretta di Prassitele, forse la zia paterna, aveva potuto sposare Focione, uno dei più insigni cittadini ateniesi della prima metà del quarto secolo. Eccezione risulta pure lo “stretto rapporto che legò Fidia e Pericle”, un rapporto di amicizia e stima reciproca – non un semplice collegamento verticalizzato tra committente ed esecutore – che portò lo scultore a diventare consigliere del “principe” e per questo – a causa delle invidie – a morire in prigione nel corso del processo per corruzione.
I guadagni: Prassitele fra i 300 ricchi di Atene
Oggi è piuttosto complesso, nonostante esistano elenchi di pagamenti, capire quale fosse il guadagno medio di un pittore o di uno scultore, a Grecia e a Roma. Ciò a causa della difficoltà di parametrare i valori con il costo della vita. Esistono comunque – e Gualandi li ha individuati – alcuni elementi che ci consentono di capire più approfonditamente di quale considerazione economica godessero i prodotti della creatività. Poiché, come abbiamo visto, buona parte dei pittori e degli scultori era di fatto considerata appartenente alla classe artigiana, in molti casi la valutazione non si basava tanto sul plusvalore introdotto dall’abilità artistica, quanto “sul valore intrinseco del materiale usato”. In modo analogo, gli architetti non erano tanto pagati per il progetto, quanto per la direzione del cantiere. Eppure una ristretta schiera poteva ambire ad elevati guadagni, anche se ciò non si traduceva in un’immediata promozione sociale. “Le fonti – avverte Gualandi – ci parlano delle enormi ricchezze accumulate da alcuni grandi artisti come Zeusi, Polignoto, Prassitele – che fece parte dei trecento ateniesi più ricchi che sostenevano la spesa delle liturgie -, Lisippo e Apelle, ai quali possiamo aggiungere l’urbanista Ippodamo di Mileto”.