di Chiara Bertoldi
La cornucopia che il destino collocò tra le mani di Tiziano fu croce e delizia per l’artista. Egli, come un funambolo, cercò infatti di evitare che il vento del Cinquecento, sempre flagellante in campo economico, provocasse la dispersione di una potenziale – poi reale – fortuna. Nonostante una lunga vita, fitta di onori e di successi, pur essendo destinatario di numerose commissioni, pur gestendo una grandissima bottega e pur essendo diventato il pittore delle corti imperiali, Tiziano cercò, fino allo sfinimento, di ottenere con suppliche i compensi per le sue fatiche.
Problema insormontabile dell’epoca era infatti il recupero dei crediti, che venne affrontato dal pittore con energia e con raffinate doti politiche.
Nonostante le effettive difficoltà incontrate per riscuotere le numerose pensioni che gli erano state assegnate dai potenti, l’artista poté godere di una ricchezza di gran lunga superiore rispetto a quella di altri pittori del Rinascimento, con la sola eccezione di Michelangelo. Ricchezza e pianti antichi: come il Buonarroti, Vecellio si autocommiserava, non esitando a viaggiare sottotraccia e a definirsi ufficialmente “povero”. Nelle lettere rivolte agli imperatori egli infatti sottolineò in più occasioni la sua condizione di miseria che, specie nell’ultimo periodo, era dichiarata con maggiore intensità: “Io non so come trovar modo di vivere in questa mia ultima età”, scrive infatti.
Quanto sembra lontano l’ormai anziano artista di corte dal giovane Tiziano che cercò di diventare pittore ufficiale della Serenissima e per il quale non il guadagno ma la propria arte era l’unico motivo d’onore. Quindi, coerentemente, il solo compenso richiesto dall’artista agli esordi era il rimborso delle spese per i colori. Ma già nel momento in cui egli lavorò per le più importanti corti italiane, prese l’abitudine di esigere laute ricompense per le sue creazioni. Numerose, a proposito, le testimonianze dei pagamenti. Tra le altre si potrebbero ricordare i 200 ducati ricevuti nel 1544 per la “Madonna con Figlio e Santi” e i 230 ducati per un ritratto di Filippo II. Curioso è pure l’episodio del 1568, allorquando Tiziano realizzò tre tele (arse già nell’incendio del 1575) per il Palazzo pubblico di Brescia, per le quali dovette “accontentarsi” di 1150 ducati, non essendosi ritenuti soddisfatti i signori della città. Pur cercando di ridimensionare le lamentele del grande artista, non è impossibile dimenticare che essere il pittore ufficiale di Carlo V e Filippo II non era garanzia di immediate ricchezze (a tal riguardo Tiziano parlava di “modeste proprietà”); infatti, al tempo, costituiva un alto compenso dell’uomo di rango elevato o elevatissimo concedere la posa e l’effigie al pittore, mentre mero valore simbolico aveva la remunerazione in denaro.
Ciò potrebbe trovare proprio conferma nel pagamento di un ducato da parte di Carlo V a Tiziano, nel 1530, a fronte della consegna di un ritratto. Nell’occasione fu Federico Gonzaga che, per questione di alleanze, dovette aggiungerne 150 di tasca propria. Onorificenze astratte dunque, parole, elogi e poco più. Tiziano venne pagato in anticipo da Carlo V solo in occasione della partenza per Augsburg. Il comportamento degli imperatori, in questo campo, non era comunque uniforme: Filippo II nel 1551 diede all’artista il compenso di 1631 scudi ed altri 2000 nel 1561. Varie erano inoltre le cedole di pagamento di cui si ha testimonianza.
Del resto Tiziano, a differenza del solitario Michelangelo – e in linea con Raffaello – era a capo di una grande bottega: aiutanti, apprendisti e giornalieri indispensabili gli permettevano di soddisfare le numerose commissioni, ma, d’altro canto, dovevano essere remunerati dal pittore stesso. Verrebbe dunque spontaneo chiedersi come egli potesse stipendiare tutti questi collaboratori se si prestasse assoluta fede alle numerose lettere da lui scritte agli imperatori negli ultimi anni di vita, lamentandosi dei mancati pagamenti. A titolo rappresentativo si ricordi quella inviata a Filippo II il 27 febbraio 1576 (anno della morte dell’artista): “Son passati già circa XXV anni che in ricompensa di molte pitture che in diverse occasioni ho inviato alla M.tà Va. Non ho mai auto cosa alcuna…” Il Vasari, anche a causa di queste lettere accusò Tiziano di cupidigia, sostenendo che egli accettasse le numerose commissioni per mera avidità di guadagno. Ora, se si volesse dar credito alla tesi che vede l’artista facoltoso, che fine avrebbero fatto tutte le sue ricchezze? Secondo le testimonianze, tutto ciò che accumulò, in una sessantina d’anni di attività, fu in parte preda dei ladri durante la peste (a causa della quale Tiziano stesso ed il figlio Orazio persero la vita), ed in parte fu dilapidato, secondo il Cappuccio, “dall’incorreggibile Pomponio, che per il padre era stato causa di tanti crucci”.
Tintoretto chiedeva il rimborso spese per il blu oltremare
Rivolgiamo ora un breve accenno al pittore che, a buon diritto, può essere osservato come contraltare di Tiziano: Tintoretto. Anch’egli si trovò ben presto a capo di una grande ed efficiente bottega, grazie all’aiuto della quale poté portare a termine le numerose opere commissionategli, realizzando decine di pale d’altare per le diverse chiese veneziane. Molteplici, come nel caso del Vecellio, sono i documenti relativi ai pagamenti ricevuti dall’artista.
Gli acconti per le sue opere ammontavano per lo più a 15, 20 ducati. Venti ducati era la retribuzione per alcuni ritratti. Ben superiore, naturalmente, era invece il compenso per opere d’ampie dimensioni, come i due teleri del 1553 (“Incoronazione e Scomunica del Barbarossa”), per ciascuno dei quali egli ricevette 150 ducati. Nel 1578 gli vennero invece consegnati 200 ducati per le Allegorie dell’Antico Collegio di Palazzo Ducale. Curioso è sicuramente scoprire che Tintoretto era solito ricevere il rimborso di 4 ducati per l’acquisto dell'”azuro ultramarin”, uno dei colori più costosi.
Del pittore rimane inoltre il testamento. Egli affidò il compimento delle sue opere al figlio Domenico, lasciandogli il materiale del suo studio, mentre al figlio Marco ne consentì solamente l’uso. Indicò infine la moglie “usufruttuaria di tutto il mio”.
Ben altra sorte toccò a Caravaggio che, nella sua pur breve esistenza, dovette affrontare numerosi problemi economici e giudiziari. Egli giunse a Roma nel 1592-96, dopo aver venduto i pochi ed ultimi beni di famiglia che ancora restavano indivisi fra lui, il fratello Giovan Battista e la sorella Caterina. Nonostante questa eredità, egli arrivò nella città dei papi “poco provisto di denari”, secondo la testimonianza di Mancini (collezionista e medico personale di Clemente VIII). Dovette, quindi, affrontare un periodo molto difficile.
La sua situazione sociale ed economica poco faceva sperare, essendo egli “senza recapito e senza provedimento”, costretto, quando venne colpito da una malattia, a recarsi all’Ospedale della Consolazione perché senza denari. A stento riusciva a vendere le sue opere, accettando di tanto in tanto basse remunerazioni.
E’ il caso, per citare un esempio, del “Fanciullo morso dal ramarro”, che, sempre secondo la testimonianza del Mancini, venne venduto per soli 15 giuli. Cifra veramente irrisoria se si considera che lo scudo d’argento equivaleva a 10 giuli o a 100 baiocchi, e che una cena in osteria, al tempo, costava tra gli 8 e i 12 baiocchi.
Nonostante le precarie situazioni economiche, Caravaggio voleva fermamente mantenere la propria indipendenza, rifiutando maestri e padroni e vivendo “da se stesso”, come egli era solito ripetere. Accettò però ugualmente l’aiuto del Cardinal Del Monte, il quale gli assicurò ad un tempo protezione materiale e contatti sociali, e vide così gradualmente aumentare le sue commissioni, nonché le entrate: “solo” 75 scudi per la “Madonna dei palafrenieri”, ma già 300 scudi per la “Cena in Emmaus“. Ricevette, inoltre, per la “Morte della Vergine” 50 scudi in acconto e altri 230 il giorno della consegna della tela. Successivamente, tale opera fu acquistata da Rubens, per conto del duca di Mantova, per la somma di 300 scudi. Altra significativa testimonianza è il pagamento avvenuto il 10 novembre 1601 per la “Crocifissione di San Pietro” e per la “Conversione di San Paolo”. L’artista, nell’occasione, ricevette 300 scudi invece dei 400 pattuiti inizialmente. Inoltre il versamento subì una dilazione di cinque mesi, perché il Caravaggio aveva consegnato le opere in ritardo.
Per quanto riguarda il domicilio del pittore in vicolo San Biagio a Roma, benché la sua abitazione non eguagliasse quelle di Raffaello e Michelangelo, superava ad ogni modo, per grandezza e tenore, la media delle case romane dell’epoca. Egli pagava infatti un affitto annuo pari a 40 scudi, mentre quello medio si aggirava intorno ai 25 (dai 12 scudi delle case più povere fino alle punte di 80-100 scudi). Il Merisi dovette però abbandonare precipitosamente questo domicilio nel luglio del 1605.
Non solo egli lasciò sei mesi di affitto arretrato, ma anche il danno di un “soffitto rotto”. Per questo fu per l’ennesima volta denunciato, e all’occasione venne fatto l’inventario delle “robbe del pittore”: poche suppellettili, qualche effetto personale e mobili ridotti all’essenziale. Trasferitosi a Napoli, egli poté finalmente godere di entrate, tanto che alcuni documenti dell’epoca attestano a Caravaggio la titolarità di un conto corrente presso una banca napoletana, segno, questo, di un esilio redditizio. Più fruttuoso ancora sembrerebbe essere stato il soggiorno siciliano. Si ricordi, a tal proposito, che a Messina l'”Adorazione dei Magi” per la Chiesa dei Cappuccini valse all’artista l’esorbitante cifra di mille scudi. Nonostante ciò, negli ultimi quattro anni della sua esistenza egli visse da braccato, fino all’improvvisa scomparsa avvenuta nel 1610.