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E’ in libreria, pubblicato da Skira, Vincent, mio fratello, volume che raccoglie le memorie di una delle sorelle di Van Gogh, Elisabeth. Una testimonianza di straordinario interesse, di cui proponiamo in queste pagine, per gentile concessione dell’editore, un ampio stralcio (la traduzione è di Luca Lamberti). Puoi acquistare il libro o l’e-book qui su Amazon
[E]rano bambini di villaggio che giocavano nel giardino della fattoria. Le macchie di calendule, reseda e gerani rossi si incendiavano ai raggi del sole al tramonto. Tutto era fiorito in quel pomeriggio di fine agosto. Oltre le aiuole si apriva il prato dove venivano stese ad asciugare le candide lenzuola di lino; più in là le file di cespugli, carichi del profumo di bacche mature. Un filare di faggi delimitava il giardino e lo separava dai campi di segale e grano che si allungavano a perdita d’occhio. In un angolo un mucchio di piselli odorosi con i baccelli ancora attaccati seccava al sole. Tre bambini allegri si divertivano ad arrampicarvisi, per poi lasciarsi scivolare giù. Di tanto in tanto si fermavano in cima alla collinetta di avvistamento per scrutare l’orizzonte.
Alle loro spalle si ergeva la vecchia casa colonica, con la lunga sequela di finestre e persiane verde scuro contro cui i fiori sembravano brillare con maggiore intensità. Era una dimora carica di storia – diverse generazioni vi avevano trascorso un’esistenza placida e serena. Nessuno dei Van Gogh aveva conosciuto grandi cambiamenti nello scorrere tranquillo della sua vita.
Davanti a loro, fin dove lo sguardo riusciva ad arrivare, si stendevano i campi di segale che si perdevano in una pallida linea grigia all’orizzonte. Là i prati ed i frutteti, appena distinguibili, erano attraversati da uno dei tanti ruscelli del Brabante, che scorreva sotto un ponticello bianco. Senza dire una parola, i tre ragazzi – due bambine e un bambino, tra i nove ed i tredici anni – osservavano i passanti. Non erano certamente campioni di pulizia. Lo stato dei loro vestiti lasciava molto a desiderare, per non parlare delle loro mani. Ma si perdonava volentieri il loro aspetto trascurato, perché sui loro volti brillava la scintilla dell’infanzia e negli occhi il colore dei fiori e la freschezza del ruscello.
Nel voltarsi, uno di loro vide avvicinarsi il fratello maggiore – un ragazzo di diciassette anni, allampanato, le spalle larghe, la schiena leggermente ricurva, con la brutta abitudine di lasciare ciondolare la testa. Un cappello di paglia nascondeva i corti capelli rossicci. Aveva una faccia strana, non giovane, l’ampia fronte già solcata di rughe, le sopracciglia corrugate dai pensieri. Gli occhi, piccoli e infossati, passavano dall’azzurro al verde, a seconda del momento. Ma nonostante l’aspetto sgraziato, si intuiva in lui una grandezza, si percepivano i segni inconfondibili di una profonda vita interiore.
Fratello e sorelle gli erano estranei, come gli era estranea la sua stessa giovinezza. Il suo genio, non ancora sbocciato, si faceva già sentire a sua insaputa; come un infante che non capisce chi sia sua madre eppure risponde al suo richiamo.
Senza nemmeno un cenno di saluto, il fratello varcò il cancello del giardino, attraversò i prati, e si mise a camminare lungo il sentiero che conduceva al torrente.
I bambini sapevano dove era diretto: aveva con sé un barattolo di vetro e il retino da pesca. A nessuno di loro venne in mente di gridare: “Posso venire anch’io?”. Conoscevano la sua abilità nel catturare gli insetti d’acqua. Al ritorno avrebbe mostrato loro i suoi trofei: coleotteri dal dorso lucido, insetti con grandi occhi tondi e zampe storte, che si contorcevano appena erano pescati dall’acqua.
Tutti, perfino quelli con le antenne incredibilmente lunghe, avevano nomi difficili, impossibili da ricordare, ma Vincent li conosceva tutti. Dopo averli preparati, li avrebbe accuratamente appuntati con uno spillo in una piccola scatola, che aveva rivestito di carta bianca, ciascuno con la sua etichetta e il suo nome in olandese e in latino.
I fratelli non avrebbero mai osato prenderlo in giro. Al contrario, lo trattavano con profondo rispetto. Non avevano il coraggio di chiedergli se potevano accompagnarlo al torrente, dove c’era un fresco delizioso e potevano infilare le mani nella sabbia senza timore di sporcarsi. I più bei non-ti-scordar-di-me e le ninfee rosa crescevano lungo il torrente. Le bambine, che amavano i fiori sopra ogni cosa, sognavano ad occhi aperti.
Non avevano il permesso di uscire dal giardino soli, e durante le passeggiate con i genitori, si sentivano ripetere continuamente: “Non andate vicino all’acqua”. Per istinto, con la sensibilità dei bambini, capivano che il fratello maggiore preferiva rimanere solo quando tornava a casa dal collegio per le vacanze. Cercava la solitudine, non la compagnia della famiglia, e conosceva tutti i luoghi dove crescevano i fiori più rari.
Evitava il piccolo villaggio con le sue stradine dritte e le casette dove gli impiccioni, appostati dietro le tendine con gli occhiali inforcati sulla punta del naso, spiavano l’andirivieni dei passanti. Da quando il villaggio aveva perso la sua stazione di posta per il cambio dei cavalli, era come morto e sepolto. Per questo il ragazzo se ne teneva lontano preferendo le foreste e i campi dove studiava gli uccelli e la vita del sottobosco. Gli uccelli li conosceva bene, sapeva dove vivevano, gli erano note le loro abitudini, e se vedeva un paio di allodole posarsi in un campo di segale, riusciva ad avvicinarsi per osservarle da vicino senza spezzare nemmeno uno stelo.
La Natura gli parlava con mille voci, ma il suo tempo non era ancora giunto. Non esiste un solo disegno a inchiostro, uno schizzo a matita di quel periodo. Non pensava a disegnare, il futuro pittore. La sua mente era tutta presa dall’osservazione. Da bambino aveva modellato la statua di un elefante con l’argilla che gli aveva dato l’assistente di uno scultore. A otto anni aveva sorpreso la madre mostrandole lo schizzo di un gatto che con un balzo selvaggio si arrampicava sul melo in giardino. Per quanto queste manifestazioni spontanee fossero sorprendenti, tanto più sorprendenti in quanto erano così rare, furono dimenticate per molti anni.
Che forte impatto dovettero avere su di lui, anima semplice di contadino, grandi città come l’Aja, Bruxelles, Parigi e Londra! Molti anni più tardi, quelle impressioni lontane avrebbero preso forma nei suoi quadri attraverso le pennellate e il colore. La fonte è spesso irriconoscibile, eppure risale a quei primi incontri. Forse è stata proprio la lunga, sopita impressione di Parigi a produrre anni dopo Marseille, con i suoi contorni affilati che si stagliano contro il cielo notturno, con le mille luci che salgono dalla città e dal porto, come per superare lo scintillio delle stelle. La forza di quella luminosità forse non avrà mai eguali in arte.
I giorni di scuola erano finiti. Il direttore dell’Accademia aveva augurato ai genitori successo e felicità per il futuro di quel figlio dotato. Ora, seguendo la tradizione di famiglia, Vincent van Gogh sarebbe entrato nel commercio.
Oggi come ieri, per un giovane che desideri diventare un mercante d’arte, fare un apprendistato da Goupil è una grande opportunità. Goupil aveva trasformato la sua società in un’impresa mondiale con uffici a Berlino, New York e Londra, succursali all’Aja e a Bruxelles: qui Vincent ricevette la sua prima formazione, che avrebbe proseguito a Parigi. I compiti di un commesso da Goupil erano simili a quelli del commesso di una libreria – fare e disfare pacchetti, sviluppare e archiviare le fotografie e le riproduzioni di quadri famosi, aiutare nella spedizione dei dipinti.
Amava queste incombenze. Aveva una straordinaria manualità, insospettabile in un ragazzo dall’aspetto tanto goffo. Questa dote si era già manifestata quando, da bambino, maneggiava con attenzione la sua collezione di coleotteri, o quando disponeva i fiori; sarebbe stata preziosa più tardi nella cura degli ammalati. Svolgeva queste mansioni senza protestare sebbene fossero molto umili per un uomo con le sue conoscenze artistiche e letterarie; le accettava di buon grado poiché sentiva che erano utili alla sua formazione.
Ebbe a che fare con ogni genere di espressione artistica: l’arte di tutti i Paesi del mondo, i dipinti e le riproduzioni di ogni genere di artista sfilarono tra le sue mani. Se fino a quel momento era stato assorbito dall’osservazione della Natura, ora si dedicava anima e corpo alla sua rappresentazione. Sovente, a suo parere, i dipinti non rendevano giustizia alla Natura che lui conosceva così bene. Constatava che le lodi non sempre andavano alle raffigurazioni più veritiere e questo lo stupiva, lo turbava, lo faceva arrabbiare.
“Que voulez-vous? C’est la mode”, gli rispondeva un giovane collega quando Vincent trovava il coraggio per esprimere i suoi dubbi. Era la Moda che dettava legge nel Regno della Bellezza, la Moda che apponeva il certificato di esistenza alle opere di un artista e ne determinava il destino. Era la Moda che arrogava a sé questi pittori e bandiva quelli con disprezzo, costringendoli a una povertà fatale per la loro arte. E lui avrebbe dovuto chinarsi davanti alla Moda e diventare suo schiavo? Lui che la disprezzava, che non aveva mai sentito il bisogno di alcun consorzio umano, estraneo com’era alle leggi e alle convenzioni della società! Avrebbe dovuto contribuire a gettare sabbia negli occhi del pubblico, viziare scientemente il buon gusto e partecipare alla distruzione del vero Bello? Era un lavoro che gli calzava a pennello!
Come commesso di un mercante d’arte, un giovane colto aveva un futuro assicurato. Ma sebbene Vincent fosse modesto, come lo sono la maggior parte dei grandi uomini, egli non aveva mai prestato la benché minima attenzione a ciò che il mondo chiama “forma”. Era perfettamente inconsapevole di aver arrecato tanto dolore ai suoi genitori schivando la vita familiare, rifiutando la compagnia, cercando sempre la solitudine. Promosso alla sede di Parigi, aveva spedito a casa il suo primo stipendio: agli occhi dei suoi fu la prova che il suo apparente distacco era in realtà solo un’incapacità di aprirsi, anche con coloro che amava.
Poco dopo, i genitori ricevettero una lettera della ditta: sebbene fossero rimasti soddisfatti del lavoro di Vincent, prima all’Aja poi a Bruxelles, erano costretti a informarli che la sua goffaggine e la sua timidezza erano nocivi agli affari e che il problema minacciava di diventare insormontabile. Le stranezze di Vincent erano particolarmente fastidiose agli occhi dei parigini, e ancor più delle parigine, che convinte com’erano delle loro conoscenze artistiche, non accettavano di essere corrette da questo rustre hollandais, come lo avevano definito. Se non fosse stato per il legame tra la sua famiglia e uno dei fondatori della società, sarebbe stato licenziato da tempo. Ora lo avrebbero mandato a Londra nella speranza che riuscisse a stabilire rapporti migliori con gli inglesi.
Per i suoi genitori la notizia fu un fulmine a ciel sereno. Non erano ciechi davanti alle peculiarità del figlio maggiore, ma erano avvezzi a sentirlo lodare e non riuscivano a capacitarsi che gli importasse così poco del suo futuro da gettarlo alle ortiche.
Quando sei settimane dopo Vincent annunciò loro che era stato definitivamente licenziato, la loro delusione fu cocente. Aveva litigato col capo dell’ufficio di Londra perché aveva espresso con chiarezza la propria opinione: aveva sostenuto infatti che la contrattazione era un meccanismo per sopraffare l’altro e quindi una forma di furto legalizzato con cui non voleva avere niente a che fare. La sua onestà gli era valsa il licenziamento.
Ma non c’era da preoccuparsi, scriveva: gli avevano pagato un mese di stipendio in anticipo e aveva già trovato un altro lavoro. Era stato assunto infatti come insegnante di francese da un vicario che aveva aperto un collegio per arrotondare la sua misera paga che non bastava alla necessità della sua numerosa famiglia. (…)
La maggior parte dei suoi studenti apparteneva alla classe disagiata dei più miseri commercianti di Londra, figli di macellai – se si può chiamare macellaio chi compra e vende carne che i negozi di buona reputazione non si sognerebbero nemmeno di toccare -, di calzolai o di piccoli negozianti che gestivano tabacchi o mercerie. Generalmente i bambini venivano mandati a scuola perché avevano una salute cagionevole, o perché nascevano in famiglie troppo numerose, senza calcolare se il reddito della famiglia sarebbe bastato a sostenere la spesa scolastica.
Se le rette non venivano onorate alla fine del trimestre, spesso il collegio adottava misure severe per ottenere i pagamenti: una visita ai genitori, l’espulsione degli alunni. Il preside assegnò al giovane insegnante lo sgradito compito di recuperare i crediti in sospeso. Per uno con il suo carattere fu certamente il lavoro più ripugnante che potessero affidargli.
Con la cartina di Londra in una mano e gli indirizzi nell’altra, si avviò con pochi spiccioli in tasca. Conosceva bene la città, era abituato a girovagare negli angoli più remoti; ben presto rintracciò le famiglie che cercava, perfino quelle che si erano trasferite, o peggio, che avevano dato un indirizzo falso. I debitori, colti di sorpresa da quella visita, furono costretti a sborsare la cifra richiesta. Al suo ritorno il vicario esultò: non aveva mai intascato tanto denaro.
Se non erano proprio i quartieri più poveri della città, poco ci mancava. Erano vicoli e viuzze dove la lotta per la vita lasciava corpi emaciati, schiene curve e profonde rughe su volti distorti. Chissà se la povertà di cui fu testimone lasciò in lui una tale impressione da volerla rappresentare. Forse fu in seguito a questa esperienza che realizzò – anni dopo, nel periodo trascorso nel Brabante –
I mangiatori di patate, in cui una famiglia di contadini è riunita per la cena attorno a un piatto di patate.
Questa volta il vicario si congratulò con il giovane insegnante, ma le cose non andarono altrettanto bene alla seconda sortita. Preparati all’incontro, i piccoli negozianti gli raccontarono la loro vita di stenti, priva di qualsiasi momento di felicità. Il giovane olandese non aveva mai visto condizioni di povertà tanto sordide. Il suo cuore sanguinò davanti a tale sofferenza: adulti ridotti a mere ombre grigie per strade anch’esse grigie e soffocanti, che conducevano un’esistenza miserabile; vite oppresse da fardelli fisici e mentali; bambini che non avevano mai conosciuto il significato della parola “infanzia”, venuti al mondo con i volti grinzosi dei vecchi.
Pieno di compassione davanti a tanta miseria, dimenticò lo scopo della sua missione e tornò al collegio con la borsa vuota e il cuore colmo di dolore. Al ritorno riferì tutto lo strazio di cui era stato testimone, ma il vicario lo interrompeva continuamente: il suo pensiero era rivolto unicamente al denaro che era riuscito a strappare a quella povera gente. Quando capì che l’assistente era tornato a mani vuote, ebbe un tale accesso d’ira che lo licenziò su due piedi.
Con gli stivali lisi e senza alcuna prospettiva, il giovane tornò a casa dai suoi.
In un angolo dell’atelier aveva collocato il tronco di un vecchio albero abbattuto da una tempesta. Lo aveva segato e infilato in una cassetta piena di terra. Fra i rami aveva posto diversi nidi: Vincent raccoglieva quelli che erano stati abbandonati dagli uccelli durante le sue passeggiate nei boschi. C’era il nido a forma di cono dello scricciolo, il nido muschioso del falco, quelli semplici del passero e del tordo; il nido di usignolo costruito con meno abilità. C’era anche il nido lanuginoso del forapaglia; quello della rondine di ruscello, fatto di erba e argilla. E infine un paio di alcune specie di uccelli che costruiscono il loro nido a terra. Avrebbe voluto un nido di martin pescatore, fatto con lische di pesce, ma non era mai stato in grado di trovarne uno, sebbene lo avesse cercato a lungo con Theodore… Scritti da Elisabeth van Gogh, la sorella minore del pittore, questi ricordi aprono uno spiraglio sull’adolescenza e la prima maturità del giovane Vincent, un ragazzo dalla sensibilità fuori dal comune, amante della natura e della vita solitaria. Elisabeth ripercorre i molti tentativi del fratello di trovare un ruolo nella società del tempo, tutti irrimediabilmente falliti: libraio, assistente di un mercante d’arte, insegnante di francese, predicatore evangelico. E tratteggia il ritratto di un giovane dalla religiosità tormentata, capace di assistere gli ammalati durante un’epidemia di tifo e di condurre un’esistenza spartana, ai limiti del fanatismo.
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