Roma, 30.05. 2024 – Molto spesso inorridiamo, quando apprendiamo la notevole passione dei romani per il vino dolcificato e aromatizzato. Ci pare un autentico insulto alla materia prima. Il problema della vinificazione di quell’epoca era collegato a vitigni non sempre particolarmente selezionati, a un’intensa torchiatura e al mantenimento prolungato di graspe, mostaccioli e residui solidi nel liquido. Ciò portava a un vino corposo, violento, al palato, certamente amarognolo, come il tannino, a volte aspro.
Fu per ingentilirne l’anima che i romani pensarono di correggerlo, poco prima della somministrazione. Al prodotto venivano aggiunti acqua fresca, spezie, agrumi, in alcuni casi resine profumate e, sempre, un po’ di miele per la dolcificazione aromatizzata.
Per risentire i sapori attinti dai calici dei nostri antenati è possibile, ancora oggi, provare sensazioni molto simili bevendo la sangria o il vin brûlé.
La sangria, come ben sappiamo, è una bevanda alcolica a base di vino, spezie, frutta, zucchero e limone originaria della Penisola iberica. E’ probabile che essa abbia ereditato i geni romani, attraverso una circolazione popolare che produceva una versione un po’ più austera dall’esplosione di colori e di sapori che noi conosciamo. Della sangria esistono varie ricette, a seconda delle regioni. Comunemente la sangria viene realizzata con il vino rosso – secondo l’arcaica tradizione della mescita romana del vino- mentre nella Catalogna viene creata con vini spumante o bianchi (sangria de cava). Il rosso è fondamentale, per restare sulla linea della tradizione più arcaica, anche perché sangria deriva dal sostantivo sangre, cioè sangue. Sangria è ciò che è sanguinante ed è per questo che, nel passato, si utilizzava questo termine per identificare il salasso.
Sangue perché ne ha lo stesso colore e perché favorisce, secondo la medicina popolare, il ricambio. Vino, insomma, fa sangue. E una parte di vero pur ci sarà.
Preparazione del vino simile a quello romano
Generalmente per preparare la sangria viene utilizzata una bottiglia di vino, tipicamente rosso, con un’alta gradazione alcolica e corposo – ricordo arcaico dei vini romani – alla quale si aggiungono tre pesche da mettere in infusione per una notte – danno aroma e soprattutto un particolare profumo alla bevanda – mezzo limone, 2 o 3 cucchiai di zucchero, cannella, chiodi di garofano. La modernità è costituita dalla sostituzione del miele con lo zucchero e dall’inserimento di un bicchierino di brandy o rum, che all’epoca dei romani non esistevano. Il giorno successivo avviene la mescita, cioè la mescolanza del prodotto, con l’aggiunta di acqua o di selz e la distribuzione del prodotto.
La parola mescita deriva dal termine mescolare, proprio perché il vino così trattato doveva essere mescolato, prima di essere servito, per rimettere in circolo dolce e aromi che potevano essersi depositati sul fondo.. Nel tempo il termine “mescita di vini” ha assunto, anche se oggi è desueto, il significato del luogo in cui si serve il vino in bicchieri.
Nell’Italia settentrionale, nel Tirolo e in alcune zone della Francia, ricordanza profonda del vino aromatico e dolce degli antenati è rimasto nel più sobrio vin brule. Un aromatica, dolce, delizia del palato. Per avvicinarsi ancor di più al vino romano bisognerebbe usare miele anziché zucchero e lasciare l’infuso con chiodi di garofano, al fresco, aggiungendo, forse un goccio d’acqua. La versione alla fiamma ha il potere di aromatizzare maggiormente la bevanda, riducendo l’apporto dell’alcol, che evaporando, abbatte la gradazione, come se al composto fosse stata aggiunta l’acqua. Quindi, tutto sommato, possiamo pensare che il vin brule fosse il sapore più in linea con l’abboccato originario ordinario del vino che venivano consumato durante pranzi e cene con amici. Freddo o caldo che fosse.