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[I]l mistero critico che circonda le Storie di San Francesco della Basilica di Assisi è tornato prepotentemente d’attualità a causa del fortunato ritrovamento nella basilica romana di Santa Maria in Aracoeli di un ciclo di affreschi risalenti alla fine del Duecento. Autore del “colpaccio”, lo studioso Tommaso Strinati, figlio di Claudio, Soprintendente ai beni storici e artistici di Roma, che ha attualmente richiesto in proposito il massimo riserbo, in attesa della pubblicazione di un dossier ufficiale. La felice scoperta – che riguarda una porzione della dipintura di un’intera cappella della chiesa, con una Madonna col Bambino, rifulgente di oro purissimo, un Cristo accompagnato da angeli e a San Pietro e poi, come elementi di sfondo e decorativi, una torre, dei putti e dei festoni -, oltre a rappresentare un fatto di estrema importanza per la quasi totale assenza di altre testimonianze dirette dell’arte di quel tempo nella Capitale, riaccende i termini della disputa sulla legittima attribuzione del merito del rinnovamento della lingua pittorica italiana, tradizionalmente assegnato a Giotto. Il ciclo di affreschi di Assisi rappresenta infatti il crocevia per eccellenza della nostra storia dell’arte e intorno ad esso è in corso da decenni un’accesa disputa che riguarda l’identificazione dell’autore. Due le fazioni contrapposte: la prima che riconosce in Giotto l’autore del ciclo e dunque in Firenze il luogo di nascita del nuovo linguaggio pittorico; l’altra che sostiene invece che l’autore sia da identificare nel pittore romano Pietro Cavallini, della cui mano sembrano portare tracce evidenti gli affreschi da poco rinvenuti. Senz’altro, se questi ultimi saranno veramente attribuiti al Cavallini, e la loro datazione risultasse antecedente a quella del ciclo assisiate, il tradizionale primato di Giotto non sarebbe più tale, ed al Maestro toscano non spetterebbe più il ruolo di “faro isolato” della rinascita italiana. Abbiamo chiesto a due tra i maggiori esperti del campo – collocati su “trincee” contrapposte – di commentare per i lettori di Stile la notizia del ritrovamento.
Bruno Zanardi, storico dell’arte e docente di Teoria e storia del restauro all’Università di Urbino, è uno dei più accesi sostenitori della tesi “romana”, proposta per la prima volta ai primi del Novecento, quando furono ritrovati gli affreschi di Pietro Cavallini di Santa Cecilia in Trastevere, e ribadita con forza un paio di anni fa da Zanardi e Federico Zeri, che avevano riconosciuto la mano del pittore romano, piuttosto che quella di Giotto, nella chiesa superiore di Assisi. “Senz’altro è troppo presto per trarre conclusioni dai pochi frammenti attualmente riportati in luce” afferma “Avendoli potuti osservare personalmente devo comunque sottolineare che in alcuni punti essi denotano una somiglianza estremamente esplicita con quelli di Assisi. In particolare, le parti decorative sono uguali, e gli elementi architettonici sono molto simili. Anche alcune figure, mostrano forti analogie. Del resto mi sembra giusto notare che se della pittura di Giotto – in cui ritengo siano inequivocabili gli apporti di cultura romana – esistono moltissime testimonianze, di quella romana di fine Duecento, contemporanea al ciclo francescano, quasi nulla è rimasto. Il ritrovamento in Aracoeli assume dunque un’importanza fondamentale. Il problema di Assisi è, d’altro canto, in una situazione di stallo, poiché pare che si accettino modifiche alla tesi della paternità di Giotto solo ed esclusivamente in presenza di “gemelli omozigoti”… Credo invece che chiunque, osservando direttamente gli affreschi romani e raffrontandoli con quelli di San Francesco, potrebbe affermare che si tratta della stessa cosa, o meglio, del frutto della medesima bottega, dove magari hanno lavorato diversi aiuti, ed è quindi assai difficoltoso riconoscere con esattezza ogni piccola sfumatura”.
Angelo Tartuferi, storico dell’arte , è invece spesso ritenuto come uno dei sostenitori del primato della scuola fiorentina su quella romana. “In realtà” ci spiega “pur riconoscendo l’estremo interesse di questo ritrovamento, dovuto alla scarsità davvero grande di documenti coevi, trovo abbastanza inopportuno l’aver posto tanta enfasi sulla solita polemica tra primato fiorentino e primato romano. Per cominciare, forse sarebbe invece opportuno parlare di una centralità assisiate, e dunque mi discosto da quanti vogliono a tutti costi attribuire una valenza “campanilistica” alla questione. Questione che per altro non vede i propri termini mutare di molto, dato che è ancora tutto da dimostrare che gli affreschi romani precedano effettivamente quelli della Basilica di San Francesco. Inoltre, a mio avviso, i dipinti ritrovati in Aracoeli paiono vicini al Cavallini, ma sembrano più conservatori, accomunabili forse più allo stile di Jacopo Torriti, altro pittore che operò nel cantiere; facendo dei confronti, ritengo che in nessun brano si colgano gli elementi di straordinaria novità introdotti da Giotto”. Autore del “colpaccio”, lo studioso Tommaso Strinati, figlio di Claudio, Soprintendente ai beni storici e artistici di Roma, che ha attualmente richiesto in proposito il massimo riserbo, in attesa della pubblicazione di un dossier ufficiale. La felice scoperta – che riguarda una porzione della dipintura di un’intera cappella della chiesa, con una Madonna col Bambino, rifulgente di oro purissimo, un Cristo accompagnato da angeli e a San Pietro e poi, come elementi di sfondo e decorativi, una torre, dei putti e dei festoni -, oltre a rappresentare un fatto di estrema importanza per la quasi totale assenza di altre testimonianze dirette dell’arte di quel tempo nella Capitale, riaccende i termini della disputa sulla legittima attribuzione del merito del rinnovamento della lingua pittorica italiana, tradizionalmente assegnato a Giotto. Il ciclo di affreschi di Assisi rappresenta infatti il crocevia per eccellenza della nostra storia dell’arte e intorno ad esso è in corso da decenni un’accesa disputa che riguarda l’identificazione dell’autore. Due le fazioni contrapposte: la prima che riconosce in Giotto l’autore del ciclo e dunque in Firenze il luogo di nascita del nuovo linguaggio pittorico; l’altra che sostiene invece che l’autore sia da identificare nel pittore romano Pietro Cavallini, della cui mano sembrano portare tracce evidenti gli affreschi da poco rinvenuti. Senz’altro, se questi ultimi saranno veramente attribuiti al Cavallini, e la loro datazione risultasse antecedente a quella del ciclo assisiate, il tradizionale primato di Giotto non sarebbe più tale, ed al Maestro toscano non spetterebbe più il ruolo di “faro isolato” della rinascita italiana. Abbiamo chiesto a due tra i maggiori esperti del campo – collocati su “trincee” contrapposte – di commentare per i lettori di Stile la notizia del ritrovamento.