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[I]l rebus – che già aveva affascinato molti pittori del passato, da Leonardo a Carracci, da Lorenzo Lotto a Dosso Dossi – fa capolino con una certa frequenza anche nell’arte contemporanea.
Un ampio excursus su questo argomento è contenuto nel volume Ah, che rebus! Cinque secoli di enigmi fra arte e gioco in Italia, catalogo dell’omonima mostra promossa a Roma dall’Istituto Nazionale per la Grafica, a cura di Antonella Sbrilli e Ada De Pirro, edito da Mazzotta .
Si comincia con Renato Mambor, che nel 1964 – ricordano le curatrici – “si avvicina ai rebus pubblicati sulla Settimana Enigmistica. Il segno che in essi delimita le cose appare all’artista carico di un’oggettività tanto cercata, quasi ‘un equivalente del nome’ delle cose stesse. Egli ritaglia dalle riviste i riquadri, li fotografa ingrandendo alcuni dettagli, allestisce dittici con le foto dei rebus che più lo colpiscono per un misto di familiarità e straniamento.
Le singole vignette originali sono oggetto di uno studio divertito, come se Mambor mettesse le mani su un album dell’infanzia. Interviene colorando pareti di stanze, cancellando volti, grafemi e intere parti di paesaggio, con l’effetto di isolare le figure nei loro contorni, che poi preleva, ingrandite, per i suoi quadri”. Al pittore non interessa il rebus come gioco enigmistico, basato sulla doppia lettura da cui scaturisce una frase risolutiva. “Ciò che lo ispira – rilevano Sbrilli e De Pirro – è l’immagine pura, lineare, denotativa, in cui il disegno rappresenta nomi e azioni che costituiscono per lui un vocabolario iconico, da riutilizzare con leggere varianti”.
Un altro artista romano, Tano Festa, realizza opere fondate sui rebus che per la Settimana Enigmistica disegna la leggendaria Maria Ghezzi, dando vita a una serie di smalti su tela emulsionata intitolata, appunto, Rebus. Serie che può valere come “una sintesi della sua poetica, riassunto di tante esperienze. L’enigma di Festa è lontano da quello di Mambor, interessato all’aspetto denotativo dei disegni dei rebus.
Va ricordato che le opere di questo pittore tra gli anni Sessanta e Settanta hanno assunto un linguaggio vicino a quello della Pop art americana, ma distante nei contenuti. Rispetto ai due grandi protagonisti Lichtenstein e Warhol i suoi rebus mostrano affinità e divergenze. Anche se i rebus sono prelievi dalla stampa popolare, non vengono utilizzati per fare una fredda analisi della percezione come fa Lichtenstein con le sue comic strip; e, pur costituendo una serie, Festa non ripete la stessa immagine come fa Warhol per mettere in luce il drammatico annullamento dell’effetto emotivo dato proprio dalla reiterazione delle immagini stesse.
A Festa – proseguono Sbrilli e De Pirro – sembra interessare di più l’applicazione dello stesso procedimento su immagini diverse per sottolineare ogni volta quanto sia facile interrompere il filo logico della comunicazione, quando ci si sottrae alle regole del gioco. Nei suoi rebus egli lavora infatti proprio sull’annullamento del percorso decifratorio. La matrice più evidente è la neometafisica, con quell’atmosfera definita Stimmung, propria della natura morta (la Natura silente dell’amato De Chirico). Nelle mani di Festa i rebus ‘popolari’ della Settimana Enigmistica acquistano una dimensione di profonda enigmaticità, dichiarando, con tratti colorati e accattivanti, la difficile posizione di una generazione”.
E veniamo ad Eugenio Miccini. L’artista, a metà degli anni Sessanta, fu il primo in Italia a creare opere in forma di rebus senza utilizzare le vignette. Come ricordano le autrici del saggio pubblicato da Mazzotta, “i rebus di Miccini, oltre a inserirsi nel contesto della poesia verbo-visiva, offrono in più un messaggio nascosto da decifrare, che quasi sempre è di tipo politico e sociale. Egli ne ideava la frase risolutiva, il titolo e il diagramma numerico e lasciava l’esecuzione di volta in volta a uno dei pittori della cosiddetta Scuola di Pistoia, ciascuno col suo stile. Il rapporto tra ideatore della frase del rebus ed esecutore del disegno, che nell’enigmistica è vincolato, nell’esperienza artistica si apre a margini di libertà espressiva e invenzione”.
La produzione di Tomaso Binga (pseudonimo della salernitana Bianca Menna) è basata sull’assunto “il mio corpo è anche il corpo della parola”. Binga costruisce così, come osserva Stefania Zuliani, “il suo flessibile alfabeto, fatto di segni e di gesti sonori, di accenti e invenzioni irriverenti, lavorando appunto sul corpo, sul suo stesso corpo di donna che, fuori dalle convenzioni, da ogni connotazione sociale, diviene inequivocabilmente lettera e simbolo. Sono scritture viventi, ordinate con cura in un prezioso Alfabetiere murale, che talvolta si offrono incastonate in dispositivi complessi e, allo stesso tempo, cordiali. Sono… IO, Sono… ME (1976-77) hanno, certo, la natura anfibia del rebus: un rebus ludico, però, privo di inganni e di tranelli, ironico prima ancora che, inevitabilmente, iconico”.
Con il rebus si sono misurati pure artisti quali Aldo Mondino (ad esempio, inserendo il suo cognome in una luna – Mond, in tedesco -, o modificando le cesure delle parole, cosicché La Venere di Milo può trasformarsi in Lave nere di Milo) o Luigi Ontani.
Di quest’ultimo va citato almeno il bassorilievo in ceramica Guglielmo Marconi Tell. Lo descriviamo. Ontani si autoritrae nei panni dell’eroe svizzero, con l’elmo in testa. E’ proprio l’elmo a costituirsi però anche come elemento del rebus, collocandosi dopo le lettere G, U, G, L ed I (da cui GUGLI-elmo). A seguire, la parola Marconi è formata dalla M, dall’immagine di un arco (l’arco di Tell) e da N ed I. I due personaggi, Tell e Marconi, accomunati dallo stesso nome di battesimo, si fondono qui ironicamente in uno solo, in una sintesi fantastica che rimanda ad un altro gioco (ideato da Umberto Eco): l’ircocervo.
Affrontano il linguaggio del rebus pure artisti che utilizzano medium meno tradizionali, dal video al graffito urbano. Coniglioviola, “marchio di fabbrica” del duo Fabrizio Coniglio e Andrea Raviola, lo fanno già nella proposizione della firma, in un videorebus con le chiavi coni, gli ovi e figure impegnate in una ola. Notevole è poi il caso di Rebus, un video del 2006 realizzato con la funzione di porta d’accesso all’esplorazione di altre opere. Accesso vincolato alla soluzione, per l’appunto, di un rebus: una frase molto lunga ed articolata – la cui scena è ambientata in una casa-museo – che, pur nel rispetto sostanziale dei meccanismi del gioco enigmistico, ne supera la staticità grazie all’azione dinamica dei protagonisti.
A decorare i muri della città (nello specifico, Milano) con coloratissimi rebus hanno pensato quelli di BrosArt (i writer Bros e Sonda), nel 2005. “Un angolo di relax
– spiega Silvia Veroli – offerto all’impazienza dei milanesi costretti nelle spire di ingorghi stradali, la possibilità di spostare la mente su qualcos’altro e ricavarne la fruizione interattiva di un’opera d’arte, oltre alla soluzione di un enigma che, se proprio non si trovava, poteva essere rintracciata su un sito web di cui veniva fornito l’indirizzo nel disegno: in pratica, un muro ipertestuale”.
Concludiamo questa carrellata ricordando un lavoro di Aldo Spinelli che può essere considerato, forse, il miglior omaggio del mondo dell’arte al rebus. L’autore si limitò a ritagliare la vignetta di uno di tali giochi apparsa sempre sulla Settimana Enigmistica per poi sistemarla in una classica cornice con passepartout, senza alcun ulteriore intervento. Va detto che la frase risolutiva del rebus in questione era proprio Cornice con passepartout…
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[PDF] Artisti enigmisti
STILE ARTE 2011