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Nuove, importanti ricerche, che dovrebbero scaturire in una grande mostra europea, sono in corso sugli esordi di El Greco, rispetto al “bilinguismo” pittorico iniziale e all’influenza che lo stesso ha avuto sui dipinti della maturità. Esse individuano atri materiali, che consentono di conoscere sempre meglio il doppio esordio dell’artista. Ma tra gli elementi formali – e diremmo sostanziali, visto che lo stile, non è soltanto una modalità di porre – merita di essere considerato anche un aspetto per il quale El Greco risulta uno degli autori più universalmente riconoscibili, proprio in virtù delle altezze smisurate dei suoi personaggi, per i volti lunghi, per la pennellata che diventa espressionista per una tavolozza allucinata, dominata tonalmente dal blu azzurrino. Un modo sconvolgente di interpretare la crisi del classicismo e battere la pista all’arrivo del barocco, in un’aria drammatica, corrusca ma dominata, nelle opere da una Fede che pare incrollabile. Il Manierismo autorizza il mancato rispetto delle divine proporzioni del classicismo e tende – pensiamo, in particolare, a Pontormo e a Rosso Fiorentino – ad autorizzare uno sviluppo eccentrico del corpo, rispetto al cerchio vitruviano. El Greco si trova pertanto ad operare in un clima che è in grado di accogliere, pur con sconcerto, un nuova frontiera del canone bizantino, le figure altissime con le quali Cristo e i santi vengono rappresentati nei territorio dell’ex impero romano d’Oriente, ma con il colorismo e la riduzione della linea del disegno, tipica della pittura veneta. Per El Greco, quella bizantina è la prima lingua, il canone proporzionale “innato” poichè appartenente alla lingua visiva ed espressiva primaria, pur nel bilinguismo di Creta, isola d’origine di Dominikos Theotokopoulos (Candia, 1541 – Toledo, 7 aprile 1614), El Greco, appunto.
Un viaggio, quello dell’artista, che prende il via dalle coste cretesi e che, passando attraverso i principali centri del rinascimento italiano, si conclude nella città di Toledo, in Spagna. Tutto ha inizio nel 1541, anno in cui il pittore nasce a Creta, una terra divisa a metà tra la tradizione figurativa postbizantina e la maniera latina, diffusa nell’isola dai veneziani, che detenevano allora il controllo del territorio. Nonostante la difficile situazione non vi erano quelle tensioni e quei conflitti che agitavano da secoli i rapporti tra arte d’occidente e d’oriente; qui, al contrario, si erano creati i presupposti per una serena convivenza: la forma bizantina, influenzata da elementi greco romani ed egizi, le norme religiose nate in seguito ai concili di Nicea ed Efeso, che regolavano anche la statura degli uomini nei dipinti, – dovevano essere di nove teste d’altezza – e l’italianizzazione prodotta dalla presenza della Serenissima, coesisteranno infatti per molti secoli. E’ in questo clima di comunione che Doménikos, di famiglia ortodossa appunto, cresce professionalmente specializzandosi in un genere destinato, da lì a poco, a trovare consensi in tutta Europa, quello delle icone.
Sono gli anni in cui crea la Dormitio Virginis (1565-1566), sua prima opera accertata, che riprende chiaramente i modelli bizantini, anche se li priva della tradizionale rigidezza – Dio di solito è rappresentato in piedi, come se sotto di lui ci fosse un piedistallo -, creando uno scenario mosso e vivace, ispirato dalle stampe. E’ già un principio di incontro, sottolineato dalla figura di Cristo, qui dipinto in una posa ricurva e affettuosa, piegato sul corpo della madre che sta per essere assunta in cielo; si tratta di una svolta in senso occidentale di questo tipo di pittura che prosegue, anche se mancano alcune delle innovazioni che matureranno in seguito, con L’Adorazione dei Magi (1565-1567), tavola in cui compare un’architettura classica, molto diversa da quelle che dipingerà nel periodo romano, caratterizzata da un’intensa luminosità e un accentuato dinamismo, che va oltre l’usuale ieraticità per aderire ai modelli rinascimentali. La fama cresce e già nel 1563 El Greco è ritenuto un maestro, titolo che gli permette, quattro anni dopo, di partire, come era uso nell’isola, alla volta dell’Italia. Qui, a Venezia, entra nello studio di Tiziano (ma apprezzerà molto anche Veronese e Tintoretto) da cui apprende il gusto per il classicismo e la maniera pittorica indigena che approfondirà poi, durante il lungo viaggio verso Roma del 1570 – dove è accolto alla corte del cardinale Alessandro Farnese su consiglio del miniatore Giulio Clovio – in occasione del quale tocca i centri di Ferrara, Padova, Verona, Parma, Bologna, Siena e Firenze. Ma è la città eterna ad affascinarlo nel bene e nel male ed è qui che dipinge La cacciata dei mercanti dal tempio (1570-1571). Nell’opera, che segna una svolta stilistica, si intuisce chiaramente l’influenza di Tiziano, soprattutto nelle figure delle donne sensuali sdraiate sui gradini del tempio, ma anche di Raffaello e Michelangelo. Fonde il proprio modo di effigiare, visionario e sognatore, con la concretezza e il manierismo, sempre in bilico tra sacro e profano, della corte; contemporaneamente cresce anche la sua abilità nei ritratti che gli sono commissionati in grande numero e tra i quali spicca il Ritratto di Giulio Clovio (1571-1572). Nonostante sia molto ammirato da Alessandro Farnese – che acquista il Ragazzo che accende una candela, anticipatore dei capolavori di La Tour e di Rembrandt -, nel 1576, in seguito agli screzi con i protettori – c’è chi dice che volesse rifare il Giudizio Universale di Michelangelo meglio e con più decenza, cosa che gli alienò i mecenati della capitale – o perché alla ricerca di nuovi sbocchi lavorativi – erano da poco stati aperti i cantieri di quello che diverrà l’Escorial – si trasferisce in Spagna, prima a Madrid, alla corte di Filippo II – che però tratta gli artisti alla stregua di mendicanti e i loro manufatti come una normale forma di devozione verso la propria persona, a cui poteva seguire una ricompensa oppure no – poi a Toledo, dove si stabilisce in via definitiva. Negli anni che trascorre nella città El Greco trasforma l’addormentata società iberica, rivitalizzandola: ne frena il declino sempre più evidente e si fa promotore di una rinascita culturale che vedrà fiorire, sul suo esempio, gli artisti del Siglo de oro tra cui spiccano Velázquez, Ribera, Zurbarán e Murillo.
E’ qui che, dopo un primo momento in cui è ancora chiara l’influenza italiana e tizianesca – come nel caso dell’Assunzione della Vergine e dell’Espolio (1577-1579; che lo consacra a livello europeo) -, passa ad un linguaggio sempre più lontano dalla realtà, visionario e lirico, dal cromatismo freddo, dalle figure allungate, dall’aspetto irreale ma spirituale; soggetti, insomma, somiglianti a Dio. Racconta Clovio che a Roma il Greco era solito meditare seduto nella penombra della sua stanza, quasi irritato dall’intensa luce del giorno che splendeva nelle strade della città: …entrai nello studio del Greco e vidi le tende delle finestre chiuse tanto ermeticamente, che solo a stento si distinguevano gli oggetti e El Greco stesso, seduto su una poltrona, che non lavorava, né dormiva. Rifiutò di uscire con me perchè la luce del giorno turbava la sua luce interiore. In Spagna, dopo un primo momento in cui si deve adattare alle mutate condizioni, riesce a riappacificarsi con l’ambiente che lo circonda, fatto che si ripercuote sul suo modo di lavorare. Sono esempio di questo cambiamento i ritratti e le grandi opere dal soggetto religioso come l’Assunzione (1607-1613), in cui i santi dipinti conservano il sapore mistico delle icone ma hanno la luce e il dinamismo tipici del manierismo, il San Sebastiano – ispirato a quello analogo del Tintoretto ma nel quale infonde una lunghezza e una drammaticità che mancano al quadro del veneziano – e La Maddalena penitente (1607), in cui l’insegnamento, stavolta tizianesco, è ormai superato. Questa Maddalena non ha più nulla a che vedere con la tradizione. La scena è dura, forte, le proporzioni non sono più seguite alla lettera, la presenza del teschio – che indica la corporalità, in antitesi con levità con la quale è rappresentata la sofferente – e la cupezza del paesaggio ricordano alcune delle caratteristiche di quella che sarà l’arte romantica. E’ stata definita la più pentita delle Maddalene per le lacrime che le donano una forte carica emotiva, sottolineata dalla tempesta, specchio del suo turbamento, che sta per sopraggiungere. Questa non è l’unica rappresentazione della donna, ce ne sono altre cinque. La terza, in particolare, ricorda molto, al contrario di quella appena analizzata, la lezione di Tiziano: le linee compositive, lo sguardo rivolto verso il cielo, l’ampolla e il teschio sono caratteristici del lagunare. Il naturalismo veneto invece ha lasciato il posto ad un paesaggio dal forte senso spiritualizzante ma al tempo stesso sensuale ed erotico. Anche i paesaggi non mancano, la Veduta di Toledo appare realizzata con metodo quasi espressionista. E’ importante ricordare, tra le tele di quest’ultimo periodo, il Laocoonte, composizione drammatica in cui sono riprodotte, nei corpi dei soggetti, le anatomie michelangiolesche in chiave quasi surrealista. Domenico non apprezza il maestro fiorentino, non ritenendolo capace di dipingere, come rivela ad un amico a Tolosa, ma è colpito dal modo in cui rappresenta i nudi. Da qui hanno origine le figure toniche del San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista, del Laocoonte, del Cristo crocifisso con due donatori e La visione dell’apocalisse (che precorre di quasi tre secoli le Bagnanti di Cézanne), corpi molto diversi da quelli delle origini tra cui è annoverata La deposizione nel sepolcro. Il 7 aprile 1614 il pittore, che ha saputo più di ogni altro integrare in sé tradizioni diverse e proporsi come punto di riferimento per il rinnovo dell’arte in Spagna prima e in tutta Europa poi, muore.
Lettera di Clovio
Ecco il testo della lettera che Giulio Clovio indirizzò ad Alessandro Farnese per favorire l’ingresso del Greco presso la corte romana:
Al Cardinale Farnese
Viterbo
A’ dì 16 novembre 1570
E’ capitato a Roma un giovane Candiotta discepolo di Ticiano, che a mio giuditio parmi raro nella pittura; e fra l’altre cose, egli ha fatto un ritratto da se stesso, che fa stupire tutti questi pittori di Roma. Io vorrei trattenerlo sotto l’ombra di V. S. Illma. et Revma, senza spesa altra del vivere, ma solo di una stanza nel Palazzo Farnese per qualche poco di tempo, cioè per fin che egli si venghi ad accomodare meglio. Però La prego et supplico sia contenta di scrivere al Co. Ludco, suo Maiordomo, che lo provegghi nel detto palazzo di qualche stanza ad alto; che V. S. Illma farà un’opera virtuosa degna di Lei, et io gliene terrò obbligo. Et Le bascio con reverenza le mani.
Di V. S. Illma et Revma humilissimo servitore.
Don Giulio Clovio
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