Il pittore americano fu influenzato dal cinema, per poi influenzare a propria volta con le sue opere molti grandi registi: da Hitchcock a Wenders, da Jarmusch a Lynch e Robert Altman
di Stefano Roffi
[R]icorda lo scrittore americano John Dos Passos: “Hopper stava seduto nello studio per ore bevendo tè. Ogni tanto sentivo che era sul punto di dirmi qualcosa, ma poi non lo faceva…”. Esattamente come tanti personaggi dei suoi dipinti: sembrano lì lì per dire o fare qualcosa, ma restano afasici e immobili, chiusi in una solitudine irreversibile, ai limiti dell’autismo, pur in evidente stato di attesa di un che di decisivo, di una sorta di Annunciazione che cambi loro la vita.
Forse attendono la realizzazione delle promesse del proprio sogno americano? Trapela la sensazione che, per accadimenti imperscrutabili, tutto possa repentinamente mutare, che nulla sia definitivo, che la frammentarietà del vivere quotidiano non sia altro che la percezione parcellizzata di una superiore e inconoscibile complessità.
Le letture giovanili, Coleridge e Hemingway, insieme agli interessi psicanalitici, non portano in Edward Hopper contaminazioni patetiche o narrative. Domina un sentimento di distacco antipoetico verso personaggi che esprimono nell’incomunicabilità una desolazione dura ed enigmatica, sentimento che potrebbe sembrare disumano se il pittore si sentisse coinvolto emotivamente anziché sospendere la tensione in glaciali fermo-immagine in cui la dissoluzione atmosferica del pudore si traduce in strumento di sincerità: un invisibile sipario si apre a rivelare scene dove attori inconsapevoli sono indifferenti nell’essere sorpresi e persistono imperturbabili nell’istantaneità della propria compressione esistenziale.
Come Vermeer, l’artista guarda i suoi soggetti in vetrina con la consapevolezza di non essere osservato a sua volta, stabilendo una distanza invalicabile tra sé e figure che vivono una loro propria vicenda, ignare di essere spiate, nel contesto irreale di un non-luogo caratterizzato dall’assenza, nell’atmosfera vuota e silenziosa di ambienti rarefatti, trasmettendo così un’acuta sensazione di monadismo.
Attraverso il nitore indagatorio della luce, una luce nordica disvelante che emana radioattiva dalla materia stessa dei corpi, anche questa assunta dai Vermeer visti ad Amsterdam e a New York, il pittore punta il riflettore su brani intimi, rubati ai cittadini americani, in una dimensione di lancinante realismo, di sospensione del desiderio nell’attesa del compiersi di un destino che non consente di distinguere fra fiducia e rassegnazione.
La dimensione temporale viene cristallizzata sottraendo ai soggetti ogni possibilità di mutamento, spazio e tempo vengono brutalmente a coincidere; ugualmente risulta estranea all’artista ogni forma di partecipazione emozionale o di denuncia dello stato di solitudine che pervade le scene, dove i personaggi paiono colti in un attimo di interrotta vitalità, come calchi delle vittime dell’eruzione di Pompei.
E’ l’America la protagonista della pittura di Hopper, col suo messaggio iniziatico, quasi fideistico di promozione individuale, di felicità possibile per tutti; l’America ordinaria del XX secolo, sintetizzata in chiave anti-drammatica di pacatezza atemporale, coi suoi silenzi monumentali, con le americanissime location, dove il quotidiano si sublima in esperienza real-pop, dove l’aspettativa, semplice frammento di un racconto di cui non è dato conoscere la trama, non prevede necessariamente un esito. Una realtà ottimistica che facilmente esclude.
Anche la frequente rappresentazione di figure femminili all’interno di camere di motel, capsule di sospensione nell’ambito di uno status migratorio che isola dalla ripetitività della vita di tutti i giorni, induce un senso di impersonale destabilizzazione in una visione americana altrimenti on the road in cui si consuma il mistero di esistenze necessitate; come nei drammi di Ibsen, in particolare Casa di bambola, nei quadri di Hopper l’azione non è progressiva ma statica, ed è rivelata non dagli eventi ma da segni emblematici, simbolici. I personaggi di entrambi sono schiavi di un vitalistico assoluto morale, pagando, senza colpa, per la propria fiducia virtuosa andata delusa.
Nella costruzione dei dipinti, Hopper evoca in chiave metafisica la “messa in scena” di un set cinematografico, infondendovi la forza comunicativa mitica e universale delle immagini filmiche attraverso soggetti di estrazione quotidiana. L’arrivo a Hollywood, fin dall’inizio degli anni Venti, di grandi registi tedeschi quali Lubitsch e Lang, oltre che dell’architetto Dreider, memore degli insegnamenti del Bauhaus, aveva portato nel cinema, e nell’immaginario di Hopper, funzionalità rigorosa, eleganza disadorna, illuminazione nitida entro scenografie diafane e riflettenti, senza ostacoli per la luce che va così a diffondersi su corpi e volti dei protagonisti, marcandone la presenza in un’aura di magnetica luminescenza, quasi füssliana.
Nello stesso periodo gli Stati Uniti ospitano, tra gli intellettuali profughi dall’Europa, architetti quali Gropius, Mies van der Rohe, Neutra; la loro spazialità rigorosa ed essenziale, particolarmente espressa negli interni, diviene un’immagine pervasiva e riconoscibile della modernità che si ritrova in alcuni quadri di Hopper, nello specifico quelli con scene di uffici, Office at Night (1940), New York Office (1962), o con volumi candidi che la luce coagula in un razionalismo da manuale.
Un taglio razionalista anche per le inquadrature su tele spesso dal formato allungato, come si trattasse del cinemascope, conferisce ai dipinti l’aspetto di un’istantanea distaccata dallo spazio e dal tempo, quasi che un film si fosse interrotto in un momento di indecidibile culmine, lasciando un senso di isolamento e intrusione.
In New York Movie (1939), la maschera di un cinema deserto si appoggia solitaria alla parete della sala, dando le spalle allo show e mostrando come l’oggetto dell’interesse dell’artista non sia lo spettacolo, ma lo stato di attesa, di incomunicabilità e di esclusione attorno allo spettacolo stesso.
Hopper meccanicizza il proprio approccio pittorico facendosi “cinepresa” fissa rispetto alla scena in movimento, che viene scrutata voyeuristicamente e “bloccata” senza alcuna interazione; come un “grande fratello” anaffettivo ma molto ricettivo, si nasconde dietro lo schermo della pittura gettando sul mondo uno sguardo freddamente documentario ed elaborando un tipo di composizione figlio della fotografia, che consente allo spettatore di cogliere un’immagine momentanea.
Come in un processo di rigenerazione delle origini del cinema americano, diversi registi della seconda metà del Novecento subiranno l’influenza di Hopper nell’esprimere per simboli e atmosfere una certa evidenza Usa in bilico fra realismo e metafisica.
In Hitchcock si ritrova l’insistenza nel rappresentare interni scrutati impudentemente dall’esterno, tema centrale de La finestra sul cortile; il regista, inoltre, guarda alla casa vittoriana del dipinto House by the Railroad (1925) come modello per l’edificio in cui si svolge Psyco, con le sue luci lattiginose, interrotte da ombre nettissime, in una sospensione paralizzante del tempo.
Wenders, in The end of violence, riproduce il celebre Nighthawks (1942) come tableau vivant, con la sua atmosfera noir. Assistiamo ma non possiamo fare niente; un impenetrabile vetro separa due mondi. La sera prima di iniziare l’opera, Hopper era rimasto colpito da una scena di The Killers, con Burt Lancaster e Ava Gardner, ambientata in un “diner”. Afferma Wenders: “In quel quadro c’è un po’ lo spirito del mio film; a prima vista, sembra una scena pacifica, distesa, ma sotto si percepisce la tensione. Come se, dalla strada buia, improvvisamente, arrivasse un’auto con dei killer armati. Ecco, la violenza non è tanto il mostrare sparatorie e ammazzamenti, quanto proprio questa sensazione che tutto può improvvisamente essere sconvolto”.
All’interno di scenari sospesi e privi di punti di riferimento, ma dallo spiccato protagonismo emozionale, gli inquieti e riflessivi personaggi di Wenders e di Hopper sembrano sempre alla ricerca della propria identità, in attesa di qualcosa che rivoluzioni le loro esistenze. Wenders dichiara che “i quadri di Hopper riguardano l’America non solo in superficie, ma scavano in profondità nel sogno americano, esaminando in maniera radicale il tipico dilemma tra apparenza e realtà”. In Paris, Texas (1984), Nastassja Kinski assume un ruolo che ricorda le donne dipinte dall’artista, forse con un passato felice ma che nel presente sembrano costrette in una dimensione di rassegnazione e isolamento.
Altro regista hopperiano è Jarmusch, coi suoi paesaggi urbani nitidi e immediati, la ricerca della sospensione del tempo nell’immagine, la diluizione esasperata dell’attimo.
In Lynch si ritrova lo stato di disorientamento che coglie lo spettatore – insieme al personaggio – di fronte a eventi inspiegabili o in attesa di soluzione, spesso in periferie americane tipicamente hopperiane; sapere che qualcosa di tremendo e ignoto è accaduto o dovrà forse accadere produce un senso di angoscia, di onirismo, di indicibilità.
C’è Hopper anche nei frammenti esistenziali che Altman ricompone nei propri film: “Io non racconto mai nulla, non ho messaggi da comunicare. Tutto quello che faccio è costituito dall’immettere nei film sentimenti e visioni che ho, e utilizzo la tecnica per permettere al pubblico di scoprirli, di comprenderli”. “Durante le riprese nella San Fernando Valley, un immenso dormitorio, studiai i quadri pieni di solitudini di Hopper. Cercavo tutte le ombre dei destini delle storie”.
IN Radio America accenna al declino di una civiltà, dietro all’idea che lo show debba svelarsi e terminare.
A Hopper, l’editore Phaidon ha dedicato una bellissima monografia, a firma Walter Wells: Il teatro del silenzio. L’arte di Edward Hopper (240 pagine, 220 illustrazioni).
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