di Stefania Mattioli
[S]ebbene le donne impegnate nell’arte fossero ancora presenze tutto sommato isolate, è durante il Rinascimento che la loro vicenda individuale diviene un tassello importante e paradigmatico del clima culturale che si respira tra Quattrocento e Cinquecento. D’altro canto, “Rinascimento” è un termine che, coniato da Vasari, ben esplicita il fervore in atto all’epoca nei diversi ambiti del sapere, della politica, della società. In sostanza ad essere riformulata, a rinascere, è una nuova concezione dell’esistenza che pone l’uomo al centro di tutte le cose, come elemento di congiunzione – da qui nasce il termine ficiniano copula mundi – tra Dio e la realtà materiale.
Così facendo la dignità del singolo, elemento di snodo tra la terra e il cielo, acquista una dimensione prima sconosciuta. Ecco perché l’anelito alla ricerca del bello, dell’armonia – d’ispirazione prettamente classica -, viene indicato dall’uomo e nell’uomo quale sintesi fra Dio e terra, fra fede e ragione. In tale contesto l’arte assurge a elemento d’elezione per affermare l’egemonia dell’uomo stesso, per celebrarne il potere e la magnificenza. Il passaggio è importante: da attività meccanica (manuale) l’arte diviene attività liberale e dunque d’intelletto. L’uomo è artefice di se stesso nella misura in cui è capace di comprendere. E’ così che l’espressione artistica diviene un mezzo idoneo per espletare questo tipo di indagine conoscitiva. Si deve alla portata “rivoluzionaria” del pensiero umanista la nuova possibilità concessa alle donne, anche se con fatica e sporadicamente, di trovare una collocazione non accessoria in relazione al maschio e alla società. Le cosiddette “donne d’arte” non hanno certo avuto vita facile: fortissime erano le discriminazioni e i pregiudizi socialmente radicati nei loro confronti.
Gli stessi uomini di ingegno come Leon Battista Alberti, Baldassar Castiglione, Pietro Bembo, che connotano, mediante disquisizioni socio-filosofiche, il pensiero e il costume dell’epoca, si facevano sì promotori della culturalizzazione del gentil sesso, purché ciò avvenisse “con moderazione”. Alle signore si addice “una tenerezza molle e delicata” acquisita mediante i rudimenti di alcune discipline quali lettere, musica e pittura. L’eccellenza della forza virile non fa per loro, bensì una mediocrità vivace che le releghi a mere presenze ornamentali: virtuose, gentili, abili nel conversare e nell’intrattenere. L’erudizione e l’espletamento di compiti di rilievo, gestione del potere compresa, è lasciata sempre e comunque agli uomini (non dimentichiamo che le donne per consuetudine erano estromesse dall’asse ereditario).
Per una ragazza, l’unico modo di avvicinarsi professionalmente all’arte è quello di dedicarsi a un lungo apprendistato – solo le famiglie nobili o molto ricche potevano permetterselo – e dimostrare abilità peculiari in tutte le tecniche e discipline (anatomia, archeologia, disegno, ecc.). Impresa ardua che costrinse le giovani talentuose a indirizzare le loro velleità verso una specializzazione circoscritta al “genere”, come il ritratto e la natura morta.
E’ ciò che accade a Sofonisba Anguissola, celeberrima ritrattista presso la Corte di Spagna. Nata a Cremona (1531-1625) da una famiglia patrizia, educata all’eclettismo dal padre Amilcare, è una delle poche pittrici del ’500 la cui opera non teme confronto con quella del sesso forte. Al punto di meritare l’encomio di Van Dyck che scrive di “preziosi avvertimenti” fornitegli dall’anziana artista incontrata a Palermo. L’iniziazione pittorica avviene nelle botteghe di Bernardino Campi e Bernardino Gatti ed è tesa ad un tipo di rappresentazione al “naturale” che farà scuola in Lombardia. Sofonisba, “capace di fissare un attimo interiore quasi insignificante” sulla tela, è stata anche abile imprenditrice di se stessa, trovando la via dell’emancipazione nei matrimoni cosiddetti “senili”, ossia con uomini molto più maturi di lei. Per fuggire all’egemonia del committente e ai dettami di una società che non vedeva di buon occhio una donna sola, per di più intraprendente e dedita ad una attività prettamente maschile – svolta con pari abilità -, ricava la sua libertà fra le pareti domestiche protetta dalla condizione di moglie. La vicenda di Sofonisba è eccezionale, ma non unica.
Lavinia Fontana (1552-1614) è un’altra pittrice che si distingue nel panorama cinquecentesco. Figlia d’arte, il padre è Prospero Fontana (pittore bolognese, si dedica principalmente al ritratto e a temi religioso-mitologici). La sua abilità vale una illustre committenza pontificia: la pala d’altare per la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Destino comune anche per Fede Galizia (1578-1630), figlia di Nunzio Galizia, e per la ben più nota Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio – pittore caravaggesco -, la cui vita è stata simile, come abbiamo visto nella pagine precedenti, ad un romanzo d’appendice. Unica scultrice conosciuta in epoca rinascimentale è invece Properzia de Rossi (1490- 1530), artista eclettica che si dedica anche al disegno e all’incisione. L’audacia di queste donne, troppo spesso, paga pegno ad un legame indissolubile e dipendente con un uomo – il padre o il marito – che fa sì che esse agiscano in una condizione di autonomia condizionata in cui l’individualità soggiace, volente o nolente, all’influsso dell’altrui desiderio. A sperimentare una nuova strada – sempre nel ’500 – verso una solitudine creativa e tutto sommato “rispettabile”, all’insegna di un’intraprendenza libera e lussuosa – ottenuta con l’ausilio di bellezza, intelligenza e cultura – sono le cortigiane, le uniche ammesse senza pregiudizio alla vita mondana.
La più illustre è Veronica Franco: oltre che cortigiana “onesta” fu poetessa e amante dell’arte. Era dunque la licenziosità di costumi l’unico modo per essere ammesse “nell’accademia degli uomini virtuosi”? Stando alla testimonianza di Veronica pare proprio di sì. Gaspara Stampa (anch’essa cortigiana “onesta”, 1523-1554) ebbe una vita misteriosa trascorsa fra Padova e Venezia. Contemporanea dell’Aretino, dedica il suo Canzoniere all’uomo che ama: attribuendogli il merito di una così generosa ispirazione, riserva a se stessa la più modesta capacità stilistica. Come le altre, Gaspara sa che non conviene esporsi troppo: in fondo, alle donne è richiesta “discrezione”. Una poetessa che seppe conciliare la scrittura ai doveri coniugali e di casta è Veronica Gambara. Nata a Brescia nel 1485, si fa interprete dello stile bembesco desunto dall’opera di Petrarca. La Gambara, per certi aspetti, è l’emblema della donna moderna: compositrice dotata, signora di Correggio, moglie e madre. Divenuta precocemente vedova, assurge alla funzione di reggente del suo Stato.
Apprezzata dai contemporanei, dedica versi all’imperatore Carlo V e ai papi Clemente VII e Paolo III. Fra le pioniere più illustri di un femminismo ancestrale contraddistinto da uno spirito manageriale nel gestire l’entourage di corte, è impossibile dimenticare Lucrezia Borgia, Isabella d’Este e Vittoria Colonna. Donne di lettere, colte e raffinate, sono state capaci di attorniarsi di maestri di gran fama dando vita ad un vero e proprio cenacolo culturale che ha segnato la storia del Rinascimento. Lucrezia, abile mecenate, per alcuni peccatrice e intrigante, celebrata da Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso come una delle “otto dame più degne” della sua epoca, durante gli anni trascorsi a Ferrara riesce ad assoldare i pittori più in vista, fra i quali Tiziano, e ad avere nel suo salotto personaggi importanti a livello europeo come Erasmo da Rotterdam.
Isabella d’Este – in un certo senso rivale di Lucrezia, sua cognata -, sposa di Francesco Gonzaga marchese di Mantova, è donna sensibile ed elegante; per questo si circonda di filosofi, letterati, scienziati e artisti noti. Nelle sue collezioni annovera dipinti di Leonardo, Tiziano e Raffaello. Quando nel 1509 suo marito cade prigioniero dei veneziani, è lei che ne fa le veci: con caparbietà e determinazione regge le sorti del regno. “La più famosa donna nell’Italia del ’500” rimane però Vittoria Colonna. Moglie di Ferrante Francesco D’Avalos, signora di Ischia, resta presto vedova. Nel 1537, stabilitasi a Ferrara, incontra Michelangelo. Fra i due nasce un legame profondo, basato principalmente su affinità elettive. Poetessa riconosciuta, esprime al meglio il suo talento nelle “rime spirituali” e altri sonetti religiosi d’ispirazione dantesca e petrarchesca. Non solo. Sa cogliere ed elaborare anche il pensiero riformatore di Girolamo Savonarola e di Valdés.
SE HAI GRADITO IL SERVIZIO E STILE ARTE, VAI ALL’INIZIO DI QUESTA PAGINA E CLICCA “MI PIACE”