di Maurizio Bernardelli Curuz
Sarebbe sufficiente partire dai giochi di nubi marmoree in Mantegna, all’interno delle quali, con pura materia, si stagliano volti candidi e bianchi cavalieri come se fossero esempi della statuaria classica, per comprendere quanto cumuli e nembi siano mutati con il mutare del pensiero sotteso alla pittura. E poiché l’arte risulta invariabilmente lo specchio della visione del mondo, la stessa nube – eterea o compatta, chiara o plumbea – diviene testimone della weltanschauung.(per vedere tutti i volti nascosti nelle nuvole di Mantegna clicca il nostro link in blu, qui accanto: www.stilearte.it/solidi-come-una-nuvola-i-volti-celati-in-mantegna/)
Il tratto filosofico che domina l’ampio segmento d’ogni epoca incide in maniera vincolante nell’ambito della rappresentazione; e l’indicatore del cielo – come elemento scenografico maggiore, dotato del potere di irradiare luce e di permeare ogni angolo del dipinto – gioca un ruolo centrale nel delineare gli snodi del pensiero. E giacché Mantegna, a partire dal suo apprendistato presso lo Squarcione, si proiettò nella dimensione dell’antico, realizzò le nubi più statuarie e solide e tridimensionali della storia, che paiono discendere direttamente dal cielo trionfale della Roma imperiale. Vogliamo evidenziare una sottigliezza semantica, che appartiene al nostro modo di esprimerci. Con il termine nubi ci riferiamo ad accumuli carichi di umidità, spesso forieri di tempesta; con il sostantivo nuvole indichiamo invece formazioni vaporose, anche consistenti, ma caratterizzate dalla leggerezza e, generalmente da colori chiari.
Ma compiamo un balzo nel tempo, dalla nuvola marmorea alle bave gentili delle opere di Giambattista Tiepolo (1669-1770). Qualcosa è indubbiamente cambiato, fosse solo per la struttura ascensionale ed elicoidale del dipinto che rotea verso incommensurabili altezze, per quel senso di magico risucchio che proviamo al cospetto di cieli verticalissimi, quasi che gli spettatori, privati – come putti e Dei – dell’ancoraggio d’ogni peso, si librassero confortati dal morbido vorticare ascensionale di una tiepida aria primaverile. Tiepolo, interprete del rinnovato sentire settecentesco, utilizza le nuvole come sorprendente e lieto elemento di contrappunto cromatico che consente di dilatare la profondità del nimbo e di portare una luce intensa sulla linea di terra.
Le nuvole sono generalmente rosa od ambra, e conferiscono alle opere un’aura di grande serenità che evoca un’ora del tardo pomeriggio di una sera di giugno, quand’esse s’intridono della benignità di un sole traverso. Irrorate da un tepore luminoso che si espande tra veli pastello, sono frutto della tavolozza rischiarata che, dopo il Seicento, secolo in cui domina, seppur con qualche eccezione – e pensiamo a Rubens e Van Dick – un cielo incombente, spesso greve e bituminoso, s’innalza cromaticamente verso il sole. Perduto il nero caravaggesco, la nuova paletta fa propri gli accordi pastello o i bianchi intrisi tonalmente dalla dominante del cielo, mentre trascorrono nuvole spumiglia o nembi che si rivelano edulcorati quanto la decorazione di un dolce per una tavola regale, con glasse eteree e sfilacciate e veli che hanno la leggerezza dello zucchero filante.
Non si tratta di una scelta autonoma, di un linguaggio precipuo di Tiepolo, anche se il maestro porta i suoi cieli e le sue nuvole ad incommensurabili altezze sotto il profilo della qualità pittorica: in genere, tutti i maestri del Settecento giocano con un nuovo tridente cromatico sulle cui punte sono collocati il bianco, il rosa e il celeste. Pure questa diversa modulazione delle masse di umidità in sospensione è frutto del pensiero dominante dell’epoca, che recupera le affermazioni di Newton, il quale ritiene che i colori chiari possano costituire una barriera ideologica contro l’oscurantismo. E davanti e dietro l’affermazione newtoniana sta tutto il mutamento dell’atteggiamento della società dell’epoca.
Cambiare nuvole e tavolozze significa mutare la concezione del presente – più lieve – e del futuro – che sta tutto compreso nelle magnifiche sorti e progressive -: documentando, come nel caso di Tiepolo, la serenità del periodo che viene caratterizzato da una visione della luce come cura, presidio e allontanamento dalle tenebre. Cieli immensi e radiosità che troviamo trasferiti in nuvole sonore nella coeva musica di Haendel (1685-1759) come nel Messiah, una turbinosa ascensione nel Dio-Corpo e nel Dio-Cielo, senza angoli d’ombra, in una vibrazione di pura luce e puro amore verso il celeste più intenso, nel vento ascensionale che porta al tripudio rococò dell’Alleluja, in una pienezza luminosa di voci splendenti, fluttuanti con la leggerezza dei cirri che si spostano rapidamente nell’aria celeste.
E comprendiamo, allora – immediatamente – quanto la correlazione tra nubi e “visione del mondo” non sia dettata dal puro gioco della casualità. Dirigiamoci quindi, a riprova dell’assunto, verso le nubi modellate dal pensiero romantico. L’uomo è una creatura prometeica, un ribelle che ha la capacità di rubare il fuoco agli Dei e di subire, sotto un cielo corrusco, il supplizio che ne deriva: essere divorato, all’altezza del fegato – sede inequivocabile della passioni – dall’aquila di Zeus. E’ la sfida titanica dell’umanità alla natura che tutto può annientare con la sua potenza.
Non possiamo quindi capire le nubi di Turner e di Constable se non passiamo attraverso la carta dei venti del pensiero romantico, in buona parte costituita da arie del nord, violente e procellose – (“quando dal nevoso aere inquiete tenebre e lunghe all’universo meni”, scrive il Foscolo) e in minima quota, come una quiete dopo la tempesta, sommossa lievemente da ponentini e zefiri, che costituiscono un porto di pittoresca pace nel quale l’anima inquieta trova temporaneo conforto.
Le nubi ottocentesche di Constable e Turner, permeate dall’onda lunga del Sublime, sono accelerate e tempestose, sfilacciate, cariche di tempesta o intrise dalla luce arcana del sole come in un’esplosione che annienti il visibile in un dorato pulviscolo. Risultano anch’esse parte di un apparato di natura simbolica. Tendono infatti ad essere immagine del pathos dell’uomo dell’Ottocento, che cerca di recuperare una dimensione spirituale contro l’idea della materia che diviene e frana verso il nulla configurato dall’evoluzione del pensiero di matrice illuminista. Una curiosità. La pittura sublime del Romanticismo crea generalmente nubi; sull’altro versante, quello pittoresco, procede contemporaneamente a creare nuvole soavi. Facce della stesa medaglia, di una natura che inganna o che dà pace, dopo averci inferto l’affanno.
Le opere di Constable – dai più minuti appunti a penna o bozzetti a olio fino alle opere compiute – rivelano una profonda conoscenza della natura, intesa come nuova divinità. Egli corre letteralmente con il pennello sulla carta o sul cartone per rincorrere questa dea sfuggente. Corre per poter cogliere, in velocità, particolari, atmosfere e la forma evanescente dei nembi. La sua arte è così divenuta nel tempo punto di riferimento in Europa per i pittori naturalisti del XIX secolo. Gli artisti francesi, e in particolare i protagonisti della Scuola di Barbizon, sono stati i primi ad avvertire la novità rivoluzionaria della sua opera. Constable ha sempre sostenuto che in un quadro il cielo rappresenta “l’organo principale del sentimento”. E i suoi paesaggi, così come i vari, mirabili “Studi di nuvole”, sono la traduzione migliore di questo suo personalissimo credo.
Gli studi del cielo si rivelano pure una magnifica testimonianza dell’estesa gamma della sua tavolozza e dell’abilità nell’applicazione di un metodo che gli permetteva di prendere “appunti” all’aperto, catturando così i vari aspetti della natura e le mutazioni della luce. Egli infatti sosteneva che “il cielo è la ‘sorgente della luce’ in natura, e governa ogni cosa”. Più tardi Constable ha iniziato a usare con ancor maggiore consapevolezza il tema del cielo tempestoso, quasi fosse un’espressione del suo più intimo sentire, in linea, comunque con il pensiero romantico.
Le nuvole dipinte dall’artista inglese sono spesso frantumate in un pulviscolo luminoso, come nei minuti che seguono una tempesta, fumi che danno l’idea di una potenza deflagrante, o masse oscure, più compatte, in movimento, che sono immagine di una natura arcana, misteriosa e violenta. L’aere è foscolianamente “inquiete”, i cumuli comprimono la scena, caricandola dell’attesa di una rivelazione imminente, come se attraverso la voce cupa del temporale o della tempesta la natura-dea manifestasse la propria identità. E quanto Schopenhauer – ma anche quanto Leopardi – viene innalzato tra gli sfilacciati, violentissimi abiti di vapore di una natura matrigna che può cancellare, in un istante, ciò che ha laboriosamente creato
Diversa è la valenza di nembi e cumuli nella pittura di matrice religiosa. “La nuvola – scriveva a metà dell’Ottocento monsignor De la Bouillerie, autore di un trattato dedicato a “Il simbolismo della natura” – che passa sopra le nostre teste senza lasciare traccia è una delle immagini di cui si serve l’autore del libro biblico per mostrarci la vanità della vita. “La nostra vita – dice – scomparirà come una nube passeggera.” “Quanto è sorprendente la verità di questo simbolo – commentava De La Bouillerie – Una nube che molto di rado lascia giungere verso di noi qualche pallido raggio di sole, ma che spesso è carica di tempesta, una nube che i venti trascinano mentre un’altra la sorpassa e la sostituisce, una nube che lontano dai nostri occhi sembra qualche cosa e che invece non è niente quando si avvicina, non rappresenta forse la vita? Ma le nubi stendono sul sole i loro lunghi veli e lo nascondono in parte allo sguardo. È per questo motivo che nella Sacra scrittura raffigurano sovente il mistero che avvolge la verità divina. ‘Il trono dell’Altissimo – dice l’Ecclesiaste – è in una colonna di nubi, perché Dio dimora, relativamente a noi, in un insondabile mistero’. E per guidare gli Ebrei nel deserto, Dio nasconde il volto divino sotto tale colonna, dal cui centro parla al suo popolo. In columna nubis loquebatur ad eos”.
“Perché – si chiede Sant’Agostino – il Signore parla agli Ebrei solo attraverso simboli, e perché la nube doveva sciogliersi solo quando faceva intendere la sua voce?”. “Ciò che era incomprensibile nella nube, Gesù Cristo l’ha fatto comprendere a tutti gli uomini – prosegue De la Bouillerie – Noi abbiamo visto che Sant’Agostino ci rappresenta i cieli come raffiguranti le Sacre Scritture. Interpretando il versetto del salmista: ‘Il Signore copre il cielo con le sue nubi, prepara la pioggia alla terra’ ci dice che cosa sono queste nubi, ossia le immagini ed i misteri rinchiusi nei santi libri. Chi umilia i peccatori ed ha pietà degli umili copre il cielo con le nubi e prepara la pioggia. Poiché voi non vedete più il sole, voi tremate, ma la pioggia che sfugge alle nuvole rende fertili le campagne, ed il sereno che poi ritorna vi riempie di gioia. Senza l’oscurità delle Scritture, non potremmo affatto dirvi tutte quelle cose che riempiono di gioia le vostre anime. Esse sono la pioggia che vi feconda; Dio ha voluto che le parole dei profeti fossero oscure perché i Dottori interpretandole potessero esercitare sul cuore degli uomini un’influenza salutare e comunicare loro, tramite le nubi, l’abbondanza della gioia spirituale”.
E più in là: “La nuvola che appare ad Elia, dapprima appena visibile e che poi pervade l’immensità dei cieli, quella che Isaia implora quando dice: ‘Oh! Che questa nube faccia piovere la giustizia!’, quella che seguendo la parola dello stesso profeta accompagna il Signore quando entra in Egitto, simboleggiano, secondo i Santi Dottori, la Vergine Maria. Ma essi sono concordi pure nel paragonare la nube alla carne stessa del Salvatore che vela la sua divinità”.
“Gesù Cristo dimora rinchiuso nelle nubi della sua vita nascosta a Betlemme e a Nazareth. Quando comincia la sua vita pubblica si preoccupa di parlare agli uomini, soprattutto con parabole; e quella nube è così densa che può rivolgere agli Apostoli questa domanda: ‘La gente chi dice che io sia?’. Il mondo non vede in lui che una nube, e gli Apostoli rispondono: “Gli uni dicono che tu sei Giovanni Battista, gli altri Elia, altri ancora Geremia’”.
“Ecco le nubi di cui Gesù Cristo si copre; ma Pietro risponde a nome di tutti: ‘Tu sei Cristo, figlio del Dio vivente’. Come se dicesse con il re profeta: ‘Chi fra le nubi potrà essere paragonato al Signore?’ Quis in nubibus sequabitur Domino? La divinità del Salvatore trapela attraverso le nubi. Nell’ultimo giorno apparirà in tutta la sua gloria, e davanti ad essa le nubi si scioglieranno per l’eternità”.
“Le nuvole, velando la luce del sole – conclude il prelato francese – ricordano al nostro spirito il mistero che circonda le cose sante; ma siccome nello stesso tempo diffondono sulla terra la pioggia e la fecondità, i Santi Dottori vedono in esse l’immagine del predicatore del Vangelo. Su questo argomento i testi abbondano. ‘Le nubi – dice il re profeta – hanno fatto sentire la loro voce, e quest’ultima è la voce della verità’. La verità di Dio, riprende Davide, ha penetrato le nubi. Veritas tua usque ad nubes’”.
Ma avvicinandoci all’epoca moderna – che viene artisticamente dischiusa dalla pittura impressionista – le nubi tendono a perdere un contenuto strettamente simbolico, per rappresentare perfettamente, con altri elementi naturali, il divenire incessante del mondo e l’estinguersi del sembiante. Sicché, attraverso nuvole o fumi, gli impressionisti cantano l’istante luminoso che fugge e che deve essere catturato. Una somma di istanti che solo i dipinti e la letteratura – basti pensare alla Recherche proustiana intesa come cattedrale realizzata con la materia prima di attimi perduti – sono in grado di sottrarre alla dimensione dell’eterna oscurità.