[C]on un occhio al mondo greco, Roma sviluppò l’arte pittorica inizialmente nell’ambito delle imprese decorative dei templi. Successivamente, i modelli che appartenevano agli edifici di culto passarono alle case, con un progressivo mutamento degli stili e dei contenuti, mutamenti che risultano collegati ai grandi cambiamenti politici. Anche eminenti personaggi contribuirono al lancio della cultura figurativa a Roma. Non tutti sanno, ad esempio, che Giulio Cesare e l’Imperatore Augusto, grandi estimatori della pittura greca, furono promotori di esposizioni che comportarono un aumento dell’interesse nei confronti di questa espressione artistica.
Un viaggio esaustivo nella Pittura romana – che risulta, al di là di ogni interesse archeologico, di particolare rilievo per chi si interessa all’arte perché qui, come un prezioso incunabolo, si trova il crogiuolo dal quale nasceranno i grandi episodi rinascimentali – è affrontato dal volume di Federico Motta editore (a cura di Ida Baldassarre e Angela Pontradolfo, con testi delle due curatrici e di Agnès Rouveret e Monica Salvatori,).
Le quattro archeologhe affrontano il tema alla luce delle nuove acquisizioni degli ultimi decenni e giungono a rivisitare la documentazione nota, rileggendola alla luce delle più recenti conoscenze. Pittura romana inquadra una produzione artistica che perdurò per secoli (dal IV secolo a.C. al IV d.C.) tenendo conto del particolare approccio, ormai consolidato da decenni di ricerche, che interpreta questi documenti non solo nel loro aspetto formale, ma anche come autentico linguaggio per immagini, rivelatore, a una corretta lettura, di aspetti dell’immaginario sociale, connesso con le scelte dei committenti e correlato al più generale sistema di rappresentazione di una società concreta.
Un approfondimento della produzione pittorica romana, o meglio, di ciò che di essa si è conservato, non solo contribuisce ad una più articolata comprensione della società del tempo, di cui è una delle espressioni più immediate ed autentiche, ma permette anche di superare la visione, a lungo perdurante, di una pittura romana dipendente ed erede passiva – quando non deviante – dal patrimonio classico greco. Naturalmente il ricorso alle fonti letterarie e l’analisi di altre classi di materiali che si esprimono attraverso le immagini (mosaici figurati, soprattutto) resta ineliminabile per colmare i vuoti creati dal naufragio di gran parte della produzione pittorica antica. Superando una visione territorialmente circoscritta e culturalmente irrelata della produzione romana, inserita invece, in maniera dinamica, fin dalle sue prime manifestazioni, nell’articolata realtà storica e nei complessi rapporti che si intrecciarono nel bacino del Mediterraneo dal primo ellenismo al tardo antico, i diversi saggi mettono in luce una produzione che trova la sua originalità proprio nella scelta, contaminazione e rifunzionalizzazione di elementi culturali disomogenei.
Questa analisi contestuale della produzione pittorica, per ambiti insieme cronologici e geografici, permette di valutare appieno la sue entità e la qualità delle reciproche influenze sia nella specificità che nei singoli linguaggi. Ora esaminiamo i principali stili della pittura romana.
Primo stile: si cercano di imitare
pittoricamente i marmi preziosi
Quando le decorazioni parietali – che progressivamente si trasformarono da lavori artigianali in vere e proprie imprese pittoriche – apparvero frequentemente nelle dimore private? “Le testimonianze più consistenti relative a decorazioni domestiche – rispondono le studiose – si collocano a partire dalla fine del IV secolo e provengono dalla Macedonia”. Il primo stile, quello strutturale, era giocato sia su monocromi “aderenti alla volontà di riprodurre la struttura di un muro in blocchi, sia sulla contrapposizione di tinte forti, geometricamente organizzate a imitare i rivestimenti in marmo prezioso”. Fondamentalmente il primo stile, piuttosto austero, non creava, nel muro, fenditure illusionisticamente aperte sul mondo, “come se l’austerità maestosa delle pareti chiuse, associata all’elegante sobrietà dei pavimenti in mosaico, il cui elemento decorativo principale è spesso costituito da cubi o da losanghe in prospettiva, fosse la sola in grado di conferire dignità alle dimore degli dei e agli atri della nobiltà”. Ma ecco l’orizzonte progressivamente aprirsi. Dalle superfici alla simulazione di architetture. Il passaggio avviene alla fine del secondo secolo avanti Cristo.
Secondo stile:
avanzano le finte colonne dipinte
Il secondo stile può essere definito come un impianto decorativo che introduce, a livello di trompe-l’oeil, dipinti parietali che rappresentano strutture architettoniche e velari, che hanno l’effetto di ampliamento prospettico delle stanze. L’evoluzione di questo sistema porterà progressivamente a sfondare in modo illusionistico, attraverso una pittura di stampo prospettico sempre più avanzato, le pareti.
Le autrici, esaminando il primo periodo del secondo stile, portano l’esempio della decorazione del santuario
tardo-repubblicano di Brescia.
“L’effetto di spostamento in profondità delle pareti appare (…) manifesto nelle due aule interne in cui semicolonne ioniche, in questo caso su alti plinti, scandiscono la superficie parietale organizzata secondo una sequenza costituita da uno zoccolo a finto bugnato, zona mediana a ortostati a sviluppo orizzontale, con una superficie a finto marmo e una superiore occupata da una serie di cornici architettoniche”. Ma ecco un nuovo mutamento.
“Negli anni centrali del I secolo a.C. la parete tende ad aprirsi, come scrive Vitruvio (De Architectura, 7, 5, 2). Si tratta di imitare le ‘forme degli edifici, le sporgenze in rilievo delle colonne dei frontoni’, di rappresentare ‘nei luoghi aperti quali le esedre, in rapporto all’ampiezza delle pareti, sfondi scenici di genere tragico o comico o satireschi, e nelle passeggiate coperte, in ragione della loro estensione in lunghezza, di fare decorazioni attingendo alla varietà dei paesaggi, rappresentando immagini conformi agli elementi paesaggistici peculiari’”.
Per quanto piuttosto rara la megalografia – che rappresenta la figura umana ad ampie dimensioni – è un genere praticato nel secondo stile. Le cornici architettoniche, in questo caso, anziché iscrivere paesaggi, circondano la visione di episodi mitici
– le battaglie di Troia o le peregrinazioni di Ulisse – o ritratti di divinità. Un caso particolare, nell’ambito megalografico, è rappresentato dai misteriosi personaggi che appaiono nella Villa dei misteri di Pompei, in un interno raffinato e ricco di simboli.
Nasce il terzo stile: diminuiscono
le architetture, arriva il quadro
“La caratteristica principale del ‘terzo stile’ – è scritto nel volume Pittura romana – è il rifiuto delle finte architetture, unitamente all’adozione di una decorazione fondata sull’associazione di grandi superfici piane colorate con tinte vivaci e spesso ornate nella parte centrale con grandi pannelli figurati. Le colonne si riducono ad esili fusti, spesso vegetalizzati o trasformati in candelabri che finiscono per caratterizzare tutto uno stile. Le tracce di rappresentazioni in prospettiva si conservano nella parte superiore della parete. Ma le loro delicate esilità ne accentuano l’aspetto irreale. La fase più antica del terzo stile corrisponde al principato di Augusto”. Con il secondo stile tardo e il terzo stile, di fatto, viene potenziata la natura del quadro, che appare come illusoria apertura nel muro: una sorta di finestra attraverso la quale è possibile osservare una porzione di mondo o assistere a scene urbane.
“La testimonianza più antica del terzo stile viene convenzionalmente identificata nella decorazione interna della piramide di Caius Cestius a Roma, datata secondo criteri epigrafici intorno al 12 a.C.”. Ma è l’avvento dell’imperatore Augusto ad incidere anche sulle modalità di decorazione parietale. Una vera matrice del gusto dell’epoca è rappresentata dai dipinti sulle pareti della sua residenza imperiale, al Palatino.
“I dipinti provenienti da questi complessi furono eseguiti intorno al 30 d.C. – è scritto in Pittura romana -, ed offrono una chiara testimonianza di ‘secondo’ stile nella sua fase finale. I muri tendono a rinchiudersi, l’impianto architettonico, divenuto più esile, serve innanzi tutto a mettere in evidenza i pannelli figurati che si dispongono al centro della parete. La policromia si fa più discreta e fa risaltare le raffigurazioni sulle quali si concentra il messaggio visivo. Ostentazione e lusso sono aboliti dagli spazi abitati da colui che si proclamava ‘primus inter pares’”.
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Quarto stile:
“barocco latino”
che riempie ogni minimo spazio
La Domus aurea di Nerone, realizzata tra il 64 e il 68 d.C., segna l’accesso a una dimensione della decorazione che potremmo definire “barocca” per l’affastellarsi di elementi decorativi, in un autentico horror vacui, che non lascia il minimo spazio libero attorno ai riquadri nei quali appaiono elementi paesaggistici o raffigurazioni mitiche.
Tutto risulta potenziato sotto il profilo cromatico.
I personaggi vengono dipinti in pose plastiche o con espressioni enfatizzate. “La sensazione di eccesso decorativo è accentuata dal moltiplicarsi delle prospettive architettoniche nella parte superiore della parete e ad ogni angolo della stanza. (…) Ogni dettaglio ornamentale si trasforma in un’antologia di motivi”.
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Il pittore Studius considerato
l’inventore del paesaggio
Nelle dimore imperiali, al centro dei pannelli che ornano le pareti non appaiono soltanto scene mitologiche o figure divine, ma anche paesaggi e pitture di giardini che costituiscono un altro riferimento all’età augustea.
“E’ significativo che l’unico nome di pittore appartenente a quest’epoca trasmesso da fonti scritte sia quello di Studius, il quale secondo Plinio il Vecchio ‘per primo inventò l’assai leggiadra pittura delle pareti raffigurandovi case di campagna, porti e temi paesaggistici, boschetti sacri, boschi, colline, peschiere, canali, fiumi, spiagge secondo i desideri di ognuno, e in quell’ambiente vari tipi di persone che passeggiano e che navigano, oppure che si dirigono per terra verso le loro ville su asinelli o carri, oppure che pescano o cacciano o anche vendemmiano. Tra i suoi soggetti compaiono anche delle nobili dimore di campagna, raggiungibili attraversando una palude, e delle donne, prese al collo da trasportatori a pagamento, che caracollano sulle spalle dei trepidi facchini’”.
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Così il dipinto diventa illusione
di un grande giardino augusteo
E’ davvero impossibile passare a descrivere i dipinti parietali della villa di Livia Drusilla, moglie di Augusto, senza prima transitare attraverso la magia dalla quale queste opere furono suscitate. Livia, prima delle nozze con Augusto, aveva ricevuto in grembo una gallina bianca lasciata cadere da un’aquila. L’animale domestico che, nonostante l’aggressione, era in perfetta forma fisica, teneva nel becco un ramo di alloro con le bacche. “Gli aruspici ordinarono che il rametto fosse piantato, e questo diede vita al bosco annesso alla villa ‘ad gallinas alba’ (alle bianche galline). I lauri trionfali della famiglia imperiale provenivano da quel luogo, e gli stessi divennero il simbolo della prosperità del lignaggio. Alla morte di Nerone, il bosco si incendiò e tutte le galline morirono”. Il grande affresco della villa di Livia a Prima Porta documenta, nell’ambito del terzo stile, la nascita della cosiddetta pittura di giardini, “spesso in contraddizione con lo spazio reale, paradiso immaginario ma, al contempo, collezione di curiosità botaniche a metà strada tra il giardino di Alcinoo e i paradisi dei re orientali. I dipinti decoravano un ninfeo di grandissime dimensioni (5,90×11,70 m) sprovvisto di finestre”.
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