di Maurizio Bernardelli Curuz
[A]more, fedeltà, tradimento, morte, ribellione alla madre. Gli apparati decorativi di palazzo Te, a Mantova, sono la reale trasposizione della psiche di Federico II Gonzaga, e forse non esiste altro luogo nel quale ogni minuscolo elemento figurativo non sia emanazione dei desideri e dei timori, delle esibizioni di forza, delle dichiarazioni politiche del committente, con una proiezione totale delle luci e delle ombre d’ogni pensiero fondamentale – pubblico o privato che sia – sui muri.
Lo straordinario edificio, che esce dalla fantasia più fumettistica del Cinquecento italiano, quella dell’ipertrofico Giulio Pippi, detto Romano, principale allievo di Raffaello, si profila pertanto come cera malleabile sulla quale si imprime la Mente del signore di Mantova. Un apparato mnemonico, araldico, di sogni, ossessioni e miti che merita di essere letto in continuità per il frequente scambio tra materiale letterario-pittorico e magma biografico.
Sorto come buen retiro tra il 1525 e il 1535- nel luogo cinto dalle acque, tra rane, pesci e il canto delle cicale, come trasformazione della vecchia scuderia suburbana dei Gonzaga -, l’edificio protesse l’ozio ritemprante di Federico e soprattutto fu residenza di colei che fu la compagna del principe, quasi una moglie morganatica, la bellissima Isabella Boschetti, alla quale il pensiero della casa, attraverso il genius loci pittorico, è in buona parte orientato. Di fatto, il pensiero di Federico trasposto in disegno da Giulio e trasfuso nella magnifica, eccessiva pittura succosa dagli allievi del Romano, si divide in tre filoni che risultano molto vicini ai luoghi freudiani: l’Es dell’amore, l’Io proiettato sull’esterno nell’ambito delle dichiarazioni politiche e il Super Io, innervato sul corpo della madre, che porta ad una sfida post-edipica. E soprattutto, come leit motiv della rappresentazione, lo stigma tormentoso della conflittualità che viene suscitata in Federico dal rapporto irrisolto tra la passione – che gli infiamma il cuore e le vene – e l’universo dei valori e dei doveri, il quale mette in luce la mancanza di quella capacità di fusione a freddo dello stoico che sarebbe tratto peculiare di un equilibrato uomo di governo.
Sono comunque le confessioni private, relative al desiderio erotico realizzato, ad apparire con forza all’interno del complesso programma decorativo del palazzo fino a dispiegare, nei dettagli, l’intera storia d’amore tra il marchese ed Isabella Boschetti, portando il mito stesso di Federico e della sua amante sulla cima dell’Olimpo, il monte sacro al quale il Gonzaga guardava come un punto d’approdo in cui tutte le contraddizioni si sarebbero risolte. Il marchese eleva tutta la propria vita al livello superiore dell’orizzonte mitico, sicché anche la sfera privata del proprio amore diviene esibizione di un percorso tortuoso – com’è tortuosa e irta di vessazioni la storia di Amore e Psiche – nel quale appare persino la liceità del delitto.
Ecco allora le insegne dedicate all’amata- con lo stemma parlato di Boschetti, nel quale Amore stringe il tronco di due alberi -, le imprese dedicate alla fedeltà amorosa o la grande celebrazione dell’eros nella sala di squillante felicità che configura l’isola d’Afrodite e la fabella di Amore e Psiche, sulla quale sembra incombere, in tutti gli apparati, la voce fuori campo di Virgilio che tuona “Omnia vincit amor et nos cedamus amori”, l’amore vince tutto e noi cediamo all’amore. Un cedimento che porta, nel marchese, persino all’omicidio del rivale. Federico, sovrapponendo la propria immagine a quella di Davide, fornisce, nei dipinti della loggia, una giustificazione biblica al proprio comportamento omicida. Egli infatti, come il re d’Israele, uccise il marito della propria amante.
Il nucleo di partenza della pubblica confessione in pittura, finalizzato all’elevazione delle private vicende a una dimensione mitologica, è collocato sulla parete, alla base della scritta Federicus, che appare frontalmente a chi accede dall’ingresso principale della sala di Amore e Psiche. La scena rappresenta il prologo erotico. Nel riquadro, alla base del nome latino del marchese, è raffigurato un episodio che risulta infatti totalmente estraneo sia alla favola di Apuleio, che ad altri elementi narrativi presenti nella stessa stanza e che si riferiscono alla Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna o a lontani miti, come quello di Polifemo e Galatea. Singolarissimo e assai raro in ambito iconografico – e già ciò induce a considerarne la specificità della funzione semantica – è il contenuto del riquadro che qui appare: Giove seduce Olimpiade.
L’opera di Giulio Romano e aiuti presenta il re degli Dei, i cui arti inferiori sono stati trasformati nelle viscide spire di un serpente – e ricordiamo, a questo proposito, quanto la vigorosa palpitazione erotica per le terrestri permettesse a Giove di trasformarsi in pioggia d’oro, in cigno, in aquila, in toro -, il quale, dopo essere entrato nella stanza di Olimpiade, moglie del sovrano macedone Filippo, la seduce e la feconda, provocando così la nascita di Alessandro Magno. Alla nostra destra, appeso alla cornice del dipinto, il re, legittimo consorte della donna, assiste al tradimento, ma subisce l’accecamento di un occhio a causa di una dardeggiante saetta. L’episodio viene estrapolato dalla Vita di Alessandro, redatta da Plutarco: “Apparve una volta anche un serpente disteso lungo il corpo di Olimpiade addormentata; e (…) dicono ch’egli (Filippo) abbia perso l’occhio che aveva accostato alla fessura della porta quando vide il dio che in sembianze di serpente giaceva con la donna” annota lo scrittore e filosofo greco.
Non vi sono dubbi – e certi rinvii al giovane e vigoroso dio barbuto potrebbero richiamare l’immagine dello stesso Federico – che la storia rappresenti la congiunzione del marchese e della nobildonna sposata. Come non risulta puro frutto del caso che al figlio nato nel 1520 dalla relazione tra il marchese e la Boschetti sia stato imposto il nome di Alessandro. L’opera così presenta, sotto il profilo semantico, tutti gli elementi che la rendono un precedente rispetto al successivo dipanarsi della narrazione della vicenda amorosa della coppia.
Altre opere, sulla stessa fascia, alludono alla liceità dell’adulterio quand’esso nasce dal desiderio di un personaggio mitico o da una forza oscura della natura, come accade a Pasifae, che preferisce le violente attenzioni del toro all’affetto coniugale di Minosse. Accecata dal desiderio, la moglie del re di Creta aveva chiesto a Dedalo che costruisse una mucca di legno, per attrarre l’animale il quale era divenuto sconvolgente oggetto della sua passione e per unirsi carnalmente a lui, facendo aderire, dall’interno del simulacro, la propria sfera genitale ad una feritoia tagliata sotto la coda del falso bovino.
Se l’episodio di Giove e Olimpiade è emanazione dell’eros maschile, la storia di Pasifae rappresenta l’adulterio non solo riletto dal punto di vista femminile, ma gestito direttamente dalla donna, come se si volesse alludere all’amour fou di Isabella Boschetti nei confronti del marchese-toro, che le impedì di considerare la figura del legittimo marito. I due riquadri svolgono pertanto la funzione di offrire la visione convergente della passione amorosa. Federico-Giove-Serpente-Toro ha sconvolto Isabella-Olimpiade-Pasifae, la quale non pensa che a lui.
L’irrefrenabile e corrisposto trasporto che lega Federico a Isabella – moglie di Francesco Cauzzi Calvisano Gonzaga – era iniziato attorno al 1516, fino a produrre gli incontenibili clamori dello scandalo. Il marchese era legato da un contratto matrimoniale con Maria Paleologo, che avrebbe dovuto portargli in dote il Monferrato; la ragazza, appartenente alla famiglia degli ex imperatori d’Oriente, nel frattempo era però morta. Quindi il signore di Mantova si era unito in matrimonio (1531) alla sorella di lei, Margherita – dalla quale avrebbe avuto sette figli -, ma la passione per la Boschetti non conosceva requie.
La vecchia Isabella d’Este, madre del marchese, aveva sofferto molto a causa di questi eccessi. Scriveva Paolo Giovio:“Non merita d’esser passata con silenzio la signora Isabella, Marchesana di Mantova, che sempre fu per li suoi onorati costumi magnificentissima e in diversi tempi della vita sua ebbe varii affronti di fortuna, i quali le diedero occasione di fare più di un’impresa. E fra l’altre accadde per un soverchio amore che portava il figliuolo suo, il duca (dal 1530, ndr) Federico, ad una gentildonna, alla quale egli voltava tutti gli onori e favori, essa restò come degradata e poco stimata, talmente che la detta innamorata del Duca cavalcava superbamente accompagnata per la città dalla turba di tutti i gentiluomini che erano soliti accompagnare lei, e di sorte non restarono in sua compagnia se non uno o due nobili vecchi che mai non la volsero abbandonare. Ma per lo quale affronto essa signora Marchesa fece dipingere nel suo palazzo suburbano, chiamato Porto, e nella corte vecchia una bella impresa a questo proposito, che fu il candelabro fatto in triangolo, il quale ne’ divini offici oggidì s’usa per le chiese la Settimana Santa, nel quale candelabro misteriosamente ad uno ad uno si levano i lumi da’ sacerdoti finché un solo resta in cima, a significazione che il lume della fede non può perire del tutto, alla quale mancò il motto e io che fui gran servitore della detta signora ve l’aggiunsi, ed è questo, ‘Sufficit unum in tenebris’ (Uno è sufficiente nelle tenebre, ndr), alludendo a quel di Vergilio ‘Unum pro multis’”.
La madre di Federico non cesserà d’osteggiare quel rapporto, ma risulterà sconfitta, come perdente è Venere nella favola di Amore e Psiche dipinta, in evidente analogia con la biografia di Federico, a palazzo Te. E’ sufficiente ripercorrere sinteticamente il racconto di Apuleio, che rifulge nel magnifico “camarone”, per capire quanto materiale autobiografico Federico avesse chiesto fosse caricato sul racconto, tratto dalla Metamorfosi o L’asino d’oro di Apuleio.
Venere-Isabella d’Este, la madre, dea della bellezza, gelosa della venustà di Psiche, umana fanciulla onorata come una divinità, ordina al figlio Amore-Federico che la giovane sia punita, suscitando in lei l’amore per l’uomo più vile del mondo. Frattanto il padre di Psiche, preoccupato del fatto che nessuno domandi in sposa la ragazza, chiede il responso del nume. Psiche, in abito nuziale, dovrà essere portata sulla cima di un monte dove è attesa per le nozze con un mostro crudele. La giovane piange e si dispera a causa del terribile destino, ma viene sollevata in aria da Zefiro e deposta nella valle d’Amore, dove si addormenta.
Al risveglio, si trova in un palazzo meraviglioso. Di notte, nell’oscurità più assoluta, viene raggiunta da un uomo sconosciuto – Amore – che si unisce carnalmente con lei senza palesare la propria identità e che le impone di non essere mai guardato con il lume. E’ un rapporto dolce, straordinariamente appagante. Presto Psiche attende un bambino, ma la ragazza, accogliendo i dubbi delle sorelle e temendo che il proprio compagno sia un mostro, si avvicina a lui con una lucerna e con la protezione di un coltello affilato. La fiamma illumina il volto bellissimo di Amore, ma la caduta di una goccia d’olio bollente dalla lampada sveglia il dio il quale, vedendo il coltello e accusando la donna di non aver rispettato i patti, vola via.
Venere-Isabella d’Este sottopone Psiche-Isabella Boschetti alle più dure prove. Alla fine, grazie all’intercessione di Giove, l’amore è possibile, con disdoro della vecchia dea. Si organizza il banchetto nuziale, mentre Giulio Romano colloca sull’ampia kline d’oro Psiche e Amore. Tra loro, discostandosi dal tracciato narrativo di Apuleio – il quale racconta che la donna era ancora in attesa del bambino -, il maestro indica la presenza di Voluttà, che trova rispondenza in Alessandro, il figlio della coppia mantovana. Il tormento di Federico tra le fiamme della passione e le contestazioni della madre rispetto ai doveri e al decoro coniugale che avrebbe meritato la moglie legittima – la quale conduce vita vedovile – è ben testimoniato dall’impresa della salamandra o del ramarro, sotto la quale appare il motto “Quod huic deest me torquet”, ciò che manca a costei tormenta me. Numerosi studiosi ritengono che l’animale sia una salamandra, la quale, secondo la leggenda, viene prodotta o suscitata dalla fiamma e riesce pertanto a resistere all’azione dirompente di ogni incendio, fuoco amoroso a cui Federico non è invece in grado di porre alcun freno. Non è escluso che, come avviene per numerosi apparati simbolici del periodo rinascimentale, si giunga ad una sovrapposizione allegorica tra la salamandra e il ramarro. Anche il secondo, infatti, veniva considerato refrattario alle passioni e all’Eros.
Esiste, a questo proposito, una testimonianza del 1574, ad opera di Ludovico Domenichi. “Portò il S. Gasparo del Maino Cavaliere Milanese per impresa un Ramarro. (…) Ha questo Ramarro molte proprietà, e fra l’altre n’ha una rarissima degna di meraviglia fra gli infiniti effetti di natura; questa è, che egli non va in amore, come fa ciascun altro animale. Onde il S. Federico Duca di Mantova trasse già una sua argutissima impresa: che fu il Ramarro, col motto ‘Quod huic deest me torquet’. E ciò era l’amore della sua donna, che lo tormentava; del qual amore quell’animale era privo”.
Le dichiarazioni relative allo stretto legame tra Isabella e il marchese proseguono in altri elementi iconografici di natura araldica che assumono le caratteristiche di stemma parlato della donna. Sulla parte occidentale della Camera delle Imprese – come nel fregio della Camera degli Imperatori – è infatti rappresentata l’impresa della boscaya, del boschetto, che allude chiaramente al cognome di Isabella e che fu ideata per Federico II da Paride da Ceresara, quando il giovane aveva sedici anni. Aveva scritto Paride, giustificando quella scelta iconografica: “Da gli antichi cabalisti, prima, et poi da gli padri nostri del Testamento vecchio è stato detto che all’entrare del paradiso delle delizie sono due arbori, una de’ quali è della vita, l’altra della morte. In questa impresa, dunque, alludendo al nome (cognome, ndr) della persona (Boschetti, ndr) per chi è fatta, vostra signoria vederà una piccola boschaya, et dal canto ove si può entrare, da l’uno dei lati è l’arbor vitae, dall’altro l’arbore mortis, ambi abbracciati dallo Amore, in demostratione che dallo amore della piccola boschaya depende la vita et la morte de l’amante”.
Federico chiede e dimostra amore eterno a Isabella anche attraverso altre imprese; riprendendo l’insegna della tortora, elaborata in passato da Gianfrancesco Gonzaga, allude alla fedeltà perenne che alcune donne sviluppano, in devoto ricordo di un grande amore. Secondo ciò che si riteneva in quell’epoca, la femmina del tubante volatile, dopo la scomparsa del maschio, si sarebbe abbeverata soltanto nelle pozze torbide per evitare di vedere riflessa la propria immagine che avrebbe ricordato quella del compagno.
Alla base dell’icona appare il motto: “Vrai amour non se change”, il vero amore non si cambia. Fedeltà che troviamo richiamata, sia sotto il profilo sentimentale che in ambito politico, nell’anima dell’impresa del monte Olimpo, che viene risparmiato da ogni perturbazione atmosferica, sicché le ceneri del sacrificio agli dei permangono in eterno. Ma Federico, il cui nome contiene peraltro il sostantivo Fede, non si limita a queste dichiarazioni. Nell’impresa dello Zodiaco egli fa realizzare “cum segni notati per stelle in mezo, il pianeta de Venere col suo corpo et cielo tocando le sue piramidal linee, il signo Tauro sua propria e amata casa; il motto dice in eadem semper, che perpetuo amor hora si trova dimostra”. Vincoli intensi di fedeltà amorosa, che giustificano, a monte, anche l’orrore di un omicidio.
La loggia di Davide, che s’apre sulle peschiere e sui giardini di palazzo Te, si segnala in quanto contiene, in un piccolo riquadro, ciò che appare la giustificazione
– appellandosi ai precedenti biblici – dell’omicidio del marito di Isabella Boschetti, Francesco Cauzzi Calvisano Gonzaga.
La motivazione della rappresentazione di Davide si collegherebbe, a livello generale, alla resistenza posta a Pavia, nel 1522, da Federico II all’assedio con cui il re di Francia Francesco I aveva cinto la città lombarda. Il piccolo Davide-Federico aveva infatti avuto la meglio su Golia-Francesco. E’ vero che per ricordare quella battaglia il marchese aveva ordinato una medaglia nella quale fosse raffigurato Davide mentre uccideva Golia. Ma la toeletta di Betsabea, inserita nel ciclo decorativo della loggia mantovana, rinvia strettamente anche a ciò che Davide, innamoratosi della donna, fece per poterla avere soltanto per sé.
Come appare nell’ottagono meridionale, Davide inviò Uria, marito di Betsabea, a morire in battaglia. Un omicidio certo giacché il re d’Israele, prima che l’uomo partisse per la guerra, ne aveva provocato l’ubriacatura. Una confessione per Federico che si proietta sulla figura di Davide, e, al tempo stesso, un’assoluzione cercata nel cielo altissimo del Vecchio testamento e della religione, che viene in soccorso al signore di Mantova, annullando il fantasma inquieto di Francesco, marito di Isabella, che era stato accusato di un complotto, e poi ucciso da un sicario.