C’è un morto nel ritratto. Come riconoscere presenze funebri nei dipinti. Finestre, alberi, tempeste

La pittura del Cinquecento si misurò con i volti delle persone defunte. Ma per suggerirne la nuova, eterna condizione, distinguendo l’effigie dello scomparso dall’immagine di una persona ritratta in vita, utilizzava un linguaggio simbolico che faceva uso di alberi spezzati, di figure spettrali e di tempeste.Ecco alcuni esempi


La pittura antica non si fermava di fronte al limite della fine dell’esistenza. In molti casi, riprendendo precedenti ritratti della persona defunta o ricorrendo – più raramente – al rilievo del suo volto sul letto di morte, i pittori giunsero ad imprimere un nuovo, eterno soffio di vita in quei corpi estinti.

I casi di quadri di lutto non sono poi rarissimi. Uno degli elementi che contraddistingue la morte dell’effigiato è normalmente, specie nella pittura cinquecentesca dell’Italia settentrionale, la presenza di un albero spezzato delineato nel paesaggio retrostante o, come nel caso dei coniugi dipinti da Lotto (lui, affranto, in vita, lei morta) un temporale che ha la forza spaventosa di evento metafisico, atto a piegare la volontà dell’uomo che qui somiglia realmente agli alberi reclinati su se stessi a causa della forza del vento.

Lotto: alberi piegati, violento temporale
Lei è morta e lui la piange senza requie

Lorenzo Lotto, Ritratto di coniugi, olio su tela, 1524 circa, (96x116 cm), San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage
Lorenzo Lotto, Ritratto di coniugi, olio su tela, 1524 circa, (96×116 cm), San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. I due effigiati erano bergamaschi. Lorenzo Lotto, com’è noto, operò a lungo nella città lombarda

Un amore che va oltre la morte, che non potrà mai essere dimenticato; è questo ciò che vuole trasmettere l’uomo del Ritratto di coniugi (1523-1524) di Lorenzo Lotto. La scena ha la valenza di un dolce – e al tempo stesso inquietante – flash metafisico. Il paesaggio che si intravede dalla finestra posta nella parte alta della tela sembra essere lo specchio dell’anima dei due soggetti ritratti e simbolo della drammatica condizione della coppia.

Lorenzo Lotto, Ritratto di coniugi, (particolare del paesaggio tempestoso) olio su tela, 1524 circa, (96x116 cm), San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage
Lorenzo Lotto, Ritratto di coniugi, (particolare del paesaggio tempestoso) olio su tela, 1524 circa, (96×116 cm), San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage

Il cielo coperto di nubi temporalesche e gli alberi piegati dal forte vento che prelude la tempesta sono elementi forieri di sciagura e di disperazione. La figura della donna, quasi illuminata di luce propria – come spesso avviene in Lotto, che non tiene conto delle regole della pittura tonale, con una distribuzione della luce e dei colori in modo uniforme negli ambienti -, sembra suggerire la presenza dello spirito della defunta, venuta a salutare, forse per l’ultima volta, il marito.

Lorenzo Lotto, Ritratto di coniugi, (parrticolare) olio su tela, 1524 circa, (96x116 cm), San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage
Lorenzo Lotto, Ritratto di coniugi, (parrticolare) olio su tela, 1524 circa, (96×116 cm), San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage

Il volto di lei è gonfio, quasi tumefatto. I suoi occhi fissi, ormai distanti dalla scena stessa. La sua mano destra, appoggiata al braccio del marito, è luministicamente sottolineata, come fosse una presenza esterna alla scena reale. Il coniuge impugna con la mano sinistra un biglietto riportante la scritta “homo num/quam” (l’uomo mai). Che significa questo rebus improprio? Osservando attentamente il dipinto si nota che, mentre la sinistra tiene il foglio, la destra indica uno scoiattolo addormentato sul tavolo.

Lorenzo Lotto, Ritratto di coniugi, (particolare) olio su tela, 1524 circa, (96x116 cm), San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage
Lorenzo Lotto, Ritratto di coniugi, (particolare) olio su tela, 1524 circa, (96×116 cm), San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage

 


Il messaggio che giunge all’osservatore è una commovente testimonianza di amore; l’uomo, infatti, a differenza dello scoiattolo che, quando va in letargo, perde il contatto con il mondo esterno fino al momento del risveglio, non potrà mai isolarsi dalla realtà, e quindi sarà impossibile per lui dimenticare la propria compagna. Ma il significato è bivalente e si estende anche alla propria compagna con un piccola dose di eresia: mentre lo scoiattolo ha il potere di risvegliarsi dalla morte, l’umanità giace in eterno.
Un dolore che Lotto sottolinea, con una pittura di grande, partecipe sensibilità e compassione, dipingendo gli occhi dell’uomo colmi di lacrime, come frutto di un dolore abissalmente silenzioso il quale sembra suggerire allo spettatore – che si immedesima nel marito, cogliendone la soggettività – uno sguardo che “legge” la stanza drammaticamente deformata.

Simonetta Vespucci: quando la pelle
più bella di Firenze vince la tomba

simonettavespucciIl senso di disagio che si avverte osservando il dipinto di Piero di Cosimo (qui accanto) è dovuto alla presenza di numerosi simboli, i quali sembrano presagire il cupo destino che subirà l’effigiata, Simonetta Vespucci, amante di Giuliano de’ Medici, scomparsa prematuramente, nel 1476, sopraffatta dalla tisi. Il quadro venne, in effetti, dipinto anni dopo la fine della splendida Simonetta. Così, ciò che appare come frutto di uno sguardo preveggente è in realtà l’evidente constatazione di un destino che si è ormai consumato, per la giovane più invidiata e guardata di Firenze. Le nuvole burrascose, portatrici di sventura, che si espandono sul fondale sembrano agglomerarsi intorno al volto della donna, aumentando in cupezza e contrastando con la bianca carnagione dell’effigiata, che, anche grazie alla nudità del torso, è immeditato motivo di richiamo dello sguardo dello spettatore.
Nella parte sinistra del dipinto, un albero spoglio rompe il sinuoso gioco di curve, creato dalle nuvole, con i suoi rami che sembrano graffiare e squarciare il cielo; l’albero secco, nell’iconografia rinascimentale, è, come dicevamo, un chiaro simbolo di morte.
Anche la figura di Simonetta, rievocata di profilo da Piero di Cosimo per motivi pratici (egli infatti, per la realizzazione, si dovette ispirare all’incisione posta su una medaglia dell’epoca), è ricca di orpelli di valenza simbolica. I gioielli che ornano la capigliatura sofisticata indicano la nobile provenienza della famiglia della giovane; il serpente che le circonda il collo – ritenuto erroneamente da Vasari un modo per richiamare la figura a quella della regina Cleopatra, morsa da un aspide -, oltre a dichiarare l’intelligenza e l’avvedutezza della donna (la serpe, infatti, era simbolo di prudentia), si avvicina molto all’immagine dell’uroboros, ovvero il serpente che rappresenta l’eternità, il tempo che continua a ripetersi all’infinito e che, in alcuni casi diviene simbolo dell’alchimia.
Il seno scoperto, in diversi casi utilizzato per indicare pittoricamente le spose, evidenzia il forte legame che univa Simonetta a Giuliano de’ Medici
– che le sopravvivrà per soli due anni -. La giovane è qui ricordata non come amante bensì come fidanzata ufficiale o moglie (essa viene infatti definita nell’iscrizione posta nella parte più bassa dell’opera “Ianuensis”, ovvero appartenente a Giano).

La tortora posata sul ramo secco
si lamenta per Giuliano de’ Medici

Botticelli, Ritratto di Giuliano de' Medici, 1478-1480, tempera su tavola, 75,6x52,6 cm,Washington, National Gallery of Art
Botticelli, Ritratto di Giuliano de’ Medici, 1478-1480, tempera su tavola, 75,6×52,6 cm,Washington, National Gallery of Art

E’ il 26 aprile 1478. Lorenzo de’ Medici, in compagnia del fratello Giuliano, entra, come è solito fare, nella cattedrale di Firenze per la messa domenicale. Sembra una mattina come le altre, ma non è così. Quello è infatti il giorno scelto dalla famiglia Pazzi per rovesciare la Repubblica, che di fatto è una signoria medicea, e prendere il potere nella città toscana. Perchè ciò si possa avverare è necessaria l’eliminazione dei due nobili.
Nel momento più solenne della celebrazione, mentre il vescovo alza al cielo l’ostia proferendo la Benedizione, i congiurati sguainano le spade, uccidono Giuliano, allora solo ventiquattrenne, e feriscono Lorenzo, che si rifugia in sacrestia. La folla fugge in preda al panico, certa della morte dei due signori. Solo in seguito il Magnifico si affaccia sulla piazza principale, rivelando di essere sopravvissuto.
La vendetta contro i traditori è molto dura: in poco tempo vengono emesse più di ottanta condanne a morte, tra cui quelle che riguardano i principali esponenti della famiglia Pazzi, da cui la congiura prende il nome. Il 26 aprile diventa da allora, e lo rimarrà fino alla fine della Signoria, giorno di lutto in ricordo dell’assassinato.
Sandro Botticelli, che è l’autore di un Ritratto postumo di Giuliano de’ Medici, ricorre nella creazione dell’opera ad alcuni dei simboli che caratterizzano il genere del quadro di lutto: a cominciare dalla presenza in primo piano, ben in vista, di un ramo secco, metafora della vita perduta ormai per sempre, essendo il ramo stesso staccato dal tronco e quindi impossibilitato a rigermogliare in una futura primavera. Inoltre l’aspetto mesto dell’effigiato – spiritualmente velato dall’indefinitezza della sua condizione, ormai non più appartenente all’ordine umano – rispecchia il dolore d’essere stato privato della vita.
Giuliano guarda verso il pavimento, con tristezza. Un’atmosfera luttuosa, rafforzata dalla presenza di una tortora che, con il suo canto malinconico e ripetitivo, ricorda apertamente il pianto che finisce in un incessante lamento. L’immagine è in bilico tra passato e presente, vita e morte; così anche le imposte, alle spalle del soggetto, sono per metà chiuse e per metà aperte. Il paesaggio è negato. Emerge soltanto un lacerto di cielo.

Il tronco mozzo e due figure spettrali
ricordano la morte di Cesare Borgia

morti altobello
La tradizione che riguarda la composizione dei quadri di lutto è comune, pur nelle complicate divisioni politiche del territorio, a tutta la penisola. Da Firenze a Roma, a cavallo tra il XV e il XVI secolo, è un fiorire di questo genere. Ne è un esempio l’opera di Altobello Melone, che secondo diverse interpretazioni raffigura nel Ritratto di gentiluomo il defunto Cesare Borgia detto il Valentino.
L’ipotesi che si tratti di un quadro di morte è suggerita dagli elementi del fondale. Il cielo è lugubre, denso di nuvole pesanti, uggiose e tristi che sovrastano e attorniano il volto dell’uomo, sul quale si rispecchia la tetra e malinconica atmosfera dell’ambiente circostante. Lo sguardo è perso verso orizzonti sconosciuti, disinteressato alle cose terrene che non gli appartengono più. Immancabile è il tronco di un albero spezzato, emblema della vita che si è conclusa.

Ritratto di Gentiluomo (detto "Cesare Borgia"), particolare, Accademia Carrara, Bergamo
Ritratto di Gentiluomo (detto “Cesare Borgia”), particolare, Accademia Carrara, Bergamo

Molto particolari due altri elementi, che risultano di lettura meno chiara, ma che contribuiscono a suggerire presenze fantasmatiche. Il primo concerne le figure spettrali che si stagliano sullo sfondo. Se quella a sinistra ricorda, pur nella sua cupezza, una donna velata, quella a destra, indecifrabile nella sua inquietante ambiguità, sembra in tutto e per tutto una creatura venuta da un’altra realtà. Singolare è anche la presenza di un castello bigio che si perde nella bruma, quasi fondendosi con la vegetazione da cui è circondato e con il cielo che lo sovrasta.

Ritratto di Gentiluomo (detto "Cesare Borgia"), particolare, Accademia Carrara, Bergamo
Ritratto di Gentiluomo (detto “Cesare Borgia”), particolare, Accademia Carrara, Bergamo

L’immagine del castello fa propendere ancor più verso l’identificazione del personaggio con Cesare Borgia. La morte di questi è avvenuta infatti il 12 marzo 1507 ai piedi della fortezza di Viana, in Spagna, durante un tentativo d’assedio al borgo in cui si erano rifugiati alcuni ribelli. Forse proprio quello evocato da Altobello Melone nella sua tavola. L’opera fu dipinta qualche anno dopo, attorno al 1513.

La decadenza familiare:
dal tronco spezzato
al ramo che si accende
di foglie e speranza

La tavola, in alto a destra, dipinta da Lorenzo Lotto e risalente ai primi anni del XVI secolo, raffigura – secondo l’interpretazione più diffusa – l’Allegoria della Virtù e del Vizio (1505) e, come era usanza per questo tipo di opere, fungeva da coperto per un ritratto di Bernardo de’ Rossi, allora vescovo di Treviso, eseguito dallo stesso Lotto. La tavola si ricollega, per la presenza di un tronco morto, alla tradizione dei quadri di lutto; stavolta però non si tratta di rappresentare la morte di un singolo individuo, ma la decadenza di un’intera famiglia: quella dei De’ Rossi di San Secondo.

Lorenzo Lotto, L'Allegoria della Virtù e del Vizio, coperta protettiva del Ritratto del vescovo Bernardo de' Rossi. olio su tavola, datato 1505, 56,5x42,2 cm,e National Gallery of Art di Washington
Lorenzo Lotto, L’Allegoria della Virtù e del Vizio, coperta protettiva del Ritratto del vescovo Bernardo de’ Rossi. olio su tavola, datato 1505, 56,5×42,2 cm,e National Gallery of Art di Washington

La scena è divisa in due parti: a destra i vizi, a sinistra le virtù. Partiamo dai primi. Ecco un paesaggio che d’acchito ci appare florido. Su un prato, nel quale notiamo alcuni vasi rovesciati, che alludono all’intemperanza, è sdraiato un satiro ubriaco che beve del vino e non si accorge dell’imminente arrivo di una tempesta, annunciata da nubi tenebrose che invadono il cielo, mentre una nave fa naufragio nelle acque del mare retrostante.
A sinistra, invece, c’è un putto che esercita tramite la scienza le proprie virtù intellettuali, indispensabili per raggiungere la perfezione morale. Il paesaggio arido in primo piano dà l’idea di un terreno contristato ma, nonostante questo, l’orizzonte è sereno e sembra promettere un futuro ricco di soddisfazioni, perseguibili solo tramite un cammino impervio (il sentiero che sale sulla collina); i sacrifici derivanti dall’esercizio delle virtù, cui si dedica il putto, sono premiati mentre, al contrario, le mollezze portano alla distruzione.
In centro, a dividere la scena esattamente a metà, la pianta morta, dal cui fianco sinistro, però, si diparte un ramo florido ai cui piedi c’è uno scudo con lo stemma dei De’ Rossi. In un momento di forte divisione tra i membri della famiglia, l’opera voleva forse mettere in guardia i discendenti da un futuro sempre più incerto. Ricordiamo però che il vescovo Bernardo, committente del quadro, secondo la tradizione, sarà mortalmente avvelenato proprio dai nipoti.

L’eterno ritorno in Tiziano Vecellio
La vita rinasce dalla pianta secca

Tiziano Vecellio, Tre età dell'uomo, 1512 circa, olio su tela, 106x182 cm, Edimburgo, National Gallery of Scotland
Tiziano Vecellio, Tre età dell’uomo, 1512 circa, olio su tela, 106×182 cm, Edimburgo, National Gallery of Scotland



La tela di Tiziano in basso a sinistra, dal forte significato allegorico, sintetizza in una sola scena continua, senza interruzioni, la vita dell’uomo. Dalla nascita, rappresentata dai due piccini che riposano sotto l’albero secco mentre un amorino veglia su di loro, alla morte, raffigurata dal vecchio che, accasciato su se stesso in un atteggiamento di intensa meditazione, sorregge due teschi tra le mani
– strana “coincidenza”: due sono i bambini e due i teschi -; nel mezzo l’età adulta, in cui amore e spensieratezza sono sottolineati dall’atmosfera bucolica che pervade l’opera.
La posizione occupata dalle diverse figure imprime alla composizione un movimento circolare che non finisce con la morte ma prosegue, incanalandosi in un nuovo inizio. Passato, presente e futuro uniti in un unico istante, tre “condizioni” della vita fuse tra loro; la memoria per fissare il passato, l’intelligenza per elaborare e agire nel presente e la preveggenza per intuire le conseguenze delle azioni nel futuro. Ma c’è un’altra chiave di lettura, che affonda le radici nella mitologia greca, e in particolare nella storia di Cloe e Dafni, che potrebbe dare una spiegazione razionale al dipinto. Alcuni studiosi ritengono che i due giovani siano personificazione degli sfortunati amanti del mito: prima da bambini, poi da adulti mentre Dafni insegna a Cloe a suonare la siringa, arte trasmessa dal dio Pan; il vecchio, infine, sarebbe il padre del pastore che piange la tragica morte dei due.
Ma ciò non toglie la possibilità che, come avveniva nel Cinquecento, l’opera si presentasse come un percorso di polisemia nel quale si stratificavano più significati pertinenti.

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